Un africano scrive a Sarkozy – Pougala 1a parte

Lettera aperta di un africano a N. SARKOZY, PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FRANCESE E AL POPOLO FRANCESE

Signor Presidente,

Sin dal giorno del suo arrivo al potere ha fatto delle scelte precise e deciso di fare degli africani in particolare un capro espiatorio dei problemi della Francia.

Lei ha aperto il vaso di Pandora che ha permesso l’esplosione dei peggiori umori razzisti in questo paese contro gli africani.

Io le scrivo questa lettera per manifestarle la mia collera e la collera di tutti coloro che, perché malati, analfabeti, timidi o per mille altre ragioni, non possono parlare con lei direttamente per esprimerle tutte le frustrazioni che la sua azione procura loro nella speranza che lei saprà correggere la rotta entro la fine del suo mandato presidenziale.

1- LA FRANCIA NON PUO’ PIÙ ACCOGLIERE 900 MILIONI DI POVERI AFRICANI

Signor presidente, l’Africa se la passa bene, molto bene grazie a quella che viene definita la « globalizzazione » e che io chiamo semplicemente « il 21° secolo ».

Nel ventunesimo secolo, quindi, l’Africa conosce il primo vero sviluppo umano della sua storia moderna. Inoltre la maggior parte dei flussi migratori avvengono all’interno della stessa Africa. Ci sono sempre più scuole che vengono costruite, sempre più ospedali, sempre più strade asfaltate, sempre più strade ferrate, sempre più linee telefoniche, sempre più giornali.

Grazie al suo secondo satellite RQ1R di RASCOM, messo in orbita il 4 agosto 2010, le conversazioni telefoniche africane non devono più passare per l’Europa, facendo così risparmiare 400 milioni di dollari all’anno che l’Europa incassava senza fare niente sulle conversazioni tra paesi africani, i villaggi africani si stanno collegando sempre più a internet grazie alla tecnologia WMAX, ecc….

Signor Presidente, non c’è bisogno che vi preoccupiate del miliardo di poveri africani che invaderebbero la Francia, perché vivono sempre meglio di noi della diaspora, di noi, Africani di Francia.

Nel frattempo si sta consumando quotidianamente il divorzio tra l’Europa e l’Africa a vantaggio degli Stati Uniti e della Cina che non vengono col bla-bla-bla, ma con i soldi, con tanti soldi e tutto ciò sembra che incanti tanto i dirigenti che la gente comune perché i risultati si vedono subito.

Il presidente senegalese Wade affermava due anni fa che 10 anni di cooperazione con la Cina avevano fatto di più per l’Africa che 1000 anni di relazioni con l’Europa. Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Mentre la Cina ha aperto il suo mercato ai prodotti manufatti africani dal 2001 per facilitare la creazione di un’industrializzazione embrionale, mentre gli USA col piano AGOA hanno aperto il loro mercato sin dal 2000 ai prodotti industriali dell’Africa subsahariana permettendo a paesi come l’Angola di esportare più di 1,7 miliardi di dollari di prodotti tessili verso gli USA passando in due anni da paese esportatore di cotone a paese importatore dello stesso cotone per servire i numerosi clienti americani, mentre paesi come il Lesotho vedono la loro ricchezza dipendere per il 75% da questo piano AGOA esportando verso gli USA vestiti professionali e calze, l’Unione Europea si butta a capofitto in un’operazione che in Africa prende il nome di Truffa Pubblica Europea (Arnaque Publique Européenne – APE), costringendo pochi paesi tra cui il Camerun a firmare un contratto che provoca una perdita a quel solo firmatario dell’Africa centrale 200 miliardi di euro di imposte doganali in 20 anni.

Non sono io a dirlo ma è il risultato di uno studio del ministero delle finanze del Camerun intitolato: “studio d’impatto dell’Ape sul bilancio”, e realizzato sotto la guida del professore Christian Emini, ricercatore e insegnante presso l’università di Yaoundé II.

In base a questo studio, reso pubblico dallo stesso ministro in una conferenza presso l’hôtel Mont-Fébé di Yaoundé, l’impatto di questo accordo con l’Unione Europea sul periodo 2010-2030 per l’economia camerunese è da incubo: perdita di entrate di 29 miliardi di Franchi camerunesi (Fcfa) nel 2010, prima del cumulo dei 7.000 e dei 13.000 miliardi di Fcfa rispettivamente nel 2023 e nel 2030, vale a dire 200 miliardi di euro che il contribuente camerunese dovrà sborsare per garantire che gli eccessi di produzione dell’Unione Europea distruggano la debole e inesistente produzione di questo paese africano.

Nel momento in cui 27 paesi dell’Unione Europea interpretano a modo loro il multilateralismo e cercano di dividere i 53 paesi africani per imporre contratti individuali paese per paese, credete che l’Unione Europea nel suo insieme abbia veramente capito che siamo entrati nel ventunesimo secolo?

2- I TRAFFICANTI DI DROGA SONO IN MAGGIORANZA AFRICANI?

Un commentatore televisivo ha creduto di farle piacere affermando, durante un dibattito, che lo sapevano tutti che se siamo tutti vittime d’un razzismo di stato che pretende da noi l’esibizione dei nostri “documenti d’identificazione” a ogni poliziotto che non gradisce di vedere le nostre teste di africani, è “a causa del fatto che i trafficanti di droga sono per la maggior parte magrebini e neri”.

Alcuni giornali hanno rincarato considerandolo un eroe perché avrebbe avuto il coraggio di dire a voce alta ciò che tutti pensano a bassa voce.

Ma signor Presidente, l’inclinazione che può sentire e bisbigliare un paese intero non trasforma le menzogne in verità. La droga non è mai passata dai quartieri chic o nei villaggi più remoti della Francia dove non vive neanche un africano? Non lo sa che perfino presso i pescatori la droga pesante sta rimpiazzando l’alcool? Ah dimenticavo, è colpa degli africani. A Neuilly, da dove lei viene, ha delle prove che la droga lì venduta, lo è dai cattivi abitanti della Banlieue?

Un programma di uno dei principali canali televisivi francesi s’è unito al linciaggio pubblico dei poveri di Banlieue mettendo in scena uno spettacolo orribile confermando le legende metropolitane che l’opinione pubblica ha del traffico di droga. No, la droga non gira più nelle Banlieue che altrove. In qualsiasi manuale di criminologia, s’insegna che il traffico di droga si basa su un’organizzazione ben strutturata in modo gerarchico con a capo un padrino e a livello più basso, per strada, il pusher, il piccolo capo del quartiere. L’obiettivo principale di qualsiasi seria lotta al traffico di droga non può che concretizzarsi nella distruzione dell’organizzazione stessa: il produttore, il raffinatore, l’importatore, il grossista e il pusher.

Solamente in Francia sembra che il male più grande sia stato trovato: il capetto del quartiere. Attaccare l’organizzazione nel suo insieme ha un costo che può essere molto alto in termini di vite umane, come lo si vede in Italia, in Messico, in Colombia con la morte di magistrati, di giudici, di poliziotti, di giornalisti coraggiosi perché capaci non di mettere un microfono nelle Banlieue e mostrare un pacco di denaro che lì circolerebbe, ma di andare a fare delle vere inchieste per stabilire il legame esistente tra criminalità organizzata e politica, e industria del lusso, e la borsa e il settore immobiliare, ecc… (leggere Gommora del giornalista Saviano che vive oggi sotto scorta).

Attaccare la colonna portante della droga vuol dire dichiarare guerra ai veri trafficanti che molto spesso sono cittadini insospettabili. E questo può fare molto male. Per la cronaca, la giustizia americana non ha mai provato che Al Capone era un padrino della mafia. Ha passato 8 anni in prigione ad Alcatraz (1931-1939), non per mafia o per traffico di droga, ma per frode fiscale; tutti i testimoni come per caso, sono scivolati su una buccia di banana prima dell’inizio di ogni processo che lo riguardava.

3- LA DELINQUENZA E’ DOVUTA A UN FATTORE CULTURALE?

Da quando lei ha aperto il vaso di pandora della criminalizzazione sistematica della miseria, esiste una ricca letteratura per darle ragione e sono perfino nate delle vocazioni. Anche gli specialisti si cimentano. L’obiettivo principale è quello che il sociologo Loïc Wacquant descrive nel suo libro « Punire i poveri » come un’operazione che cerca semplicemente di rimpiazzare lo stato sociale con lo stato penale.

E’ con questa logica che un sociologo francese ha scritto recentemente un libro per farci diventare dei delinquenti biologici, ma che dico, delinquenti culturali.

Parla di una “Afrique Sahélienne” (Africa Saheliana) che non esiste nè nella storia e ancor meno in geografia poiché si preoccupa di eliminare l’Algeria, la Mauritania, il Sudan, l’isola di Capo Verde, Djibouti e l’Eritrea.

La ragione è molto semplice: la strategia è ancora una volta quella di colpire il più debole e di utilizzarlo come capro espiatorio. Secondo questo ricercatore, le popolazioni del Mali, del Burkina Faso e del Niger hanno una cultura della delinquenza perché in Francia non ritrovano più il patriarcato delle loro primitive origini africane.

Io gli contrappongo una delle scuole di pensiero più conosciute in materia di marginalità e criminalità urbana e ovviamente quella che viene chiamata la SCUOLA DI CHICAGO. Utilizzando i metodi etnologici definiti di « osservazione partecipante », per 30 anni dei ricercatori hanno studiato l’evoluzione dei comportamenti degli immigrati in una città in piena trasformazione industriale, Chicago, per dimostrare che non c’era alcun rapporto tra la razza o la cultura d’origine e la delinquenza.

Per esempio, W. I. Thomas e Florian Znaniecki hanno dimostrato che il comportamento degli immigrati non era legato a un problema fisiologico ma era da attribuire direttamente ai problemi sociali intervenuti nelle loro vite d’ogni giorno. Essi affermano: « la vera variabile è l’individuo, non la razza, ancor meno la cultura d’origine ».

In una delle loro opere pubblicata in 5 tomi tra il 1918 e il 1920 col titolo “Le paysan polonais en Europe et aux États-Unis” (Il contadino polacco in Europa e negli USA) si trova il risultato di uno dei primi studi completi sui problemi dell’immigrazione e dell’integrazione.

L’originalità si trovava nel fatto che questi due ricercatori avevano studiato le famiglie polacche tradizionali nei loro villaggi in Polonia con le loro abitudini sociali, in ciò che chiamano: « l’organizzazione del gruppo primario » fino all’immigrazione negli Stati Uniti col suo modernismo e con i suoi nuovi codici.

Secondo Thomas, “la patologia individuale non è un indicatore della disorganizzazione sociale. Se c’è un processo di riorganizzazione sociale, un individuo può trovarcisi disadattato, in ritirata rispetto a questo fenomeno sociale collettivo. Ciò è vero soprattutto per le persone della seconda generazione (d’immigrati) che si trovano coinvolti in fenomeni di delinquenza, alcolismo, vagabondaggio e criminalità”.

Se questo processo di riorganizzazione è difficilmente seguibile dall’individuo, questo è dovuto al fatto che esige di disfarsi dei vecchi legami per inventarne di nuovi. A partire da Thomas, la scuola di Chicago dà un’importanza fondamentale alla soggettività dell’individuo; i comportamenti dell’individuo si spiegano con la loro percezione della realtà, non con la realtà stessa; così non si può parlare di una comunità o di una razza di delinquenti, sia esssa di rom (zingari) o altri, poiché la devianza è innanzitutto individuale.

Nel 1929 John Landesco pubblicava un rapporto intitolato: “Organized crime in Chicago” (Crimine organizzato a Chicago), nel quale dimostrava l’esistenza di un legame tra il crimine e l’organizzazione sociale della città. Secondo lui « come il buon cittadino, il gangster è il prodotto del suo ambiente. Il buon cittadino è cresciuto in un’atmosfera di rispetto e di obbedienza alla legge. Il gangster ha frequentato un quartiere dove la legge è al contrario costantemente violata ».

Signor Presidente, la soluzione (alla criminalità nelle Banlieue) non consiste nel moltiplicare i griots della corte affinché le ripetano che gli africani sono portatori di una cultura della devianza, ma di lavorare affinché la disorganizzazione sociale di alcune persone che abitano nelle Banlieue non si traduca in devianza.

Questo non è il lavoro della polizia ma della politica.

A questo proposito le consiglio di seguire l’esempio dei dirigenti sudafricani per il problema di Soweto dove il progetto principale è stato quello di trovare i mezzi per far emergere una classe media e intellettuale in quella township resa tristemente celebre dai razzisti dell’apartheid. E funziona, benché i sostenitori dell’afro-pessimismo vogliono farci credere il contrario. Infatti sono proprio quegli stessi abitanti che, arricchendosi, stanno rimodellando il look della loro città.

La seconda e ultima parte sarà pubblicata domani

Traduzione di Piervincenzo Canale

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