ROSARNO: razzismo di stato e strategia dell’abbandono

Rosarno atto secondo. Qualunque cosa succeda all’epilogo, la trama di questo film è già delineata nei suoi elementi essenziali, a definirlo come un remake dell’antecedente capitolo intitolato “La rivolta di Rosarno”.

Cambia l’epilogo, però, ché a dispetto degli allarmi, dannosi e irresponsabili, urlati da diversi politici e ripresi con sensazionalismo dalla stampa, nessun fantasma di nuova rivolta s’aggira per i campi della piana.

A rendere più drammatica la storia invece, questa volta, un morto, anzi due… a farci capire come la violenza evidente esplosa in strada nel 2010 da entrambe le “parti” sia stata solo manifestazione occasionale di una violenza più profonda e feroce, quotidiana, strutturale.

Perché chi muore per una rissa, come il ragazzo ucciso in tendopoli a settembre, o per un “incidente” annunciato, come il giovane padre di 34 anni travolto qualche giorno fa in contrada Fabiana, non è solo vittima di chi ha materialmente compiuto il fatto. È soprattutto vittima delle circostanze che quel fatto hanno reso possibile e di chi quelle circostanze ha determinato, tanto più quando sono circostanze nient’affatto inevitabili e fatali, anzi evitabilissime, se solo lo stato, in entrambi i casi, avesse adempiuto
ai suoi doveri.

Vittime dello stato, questo sono.

Delle leggi che ne determinano la condizione legale di precarietà e dell’indifferenza verso le condizioni di vita di chi in questa precarietà è costretto a muoversi e, quindi, a vendersi. Per dirlo con una metafora, se si tende un filo a 100 metri d’altezza, tra i due poli della “clandestinità” e della “regolarità”, e s’inducono masse di persone a percorrerlo in gara per raggiungere la meta, è inevitabile che prima o poi qualcuno cada.

È proprio questo il gioco di uno stato criminale e irresponsabile, ch’è venuto in pompa magna a Rosarno e con la voce del Ministro Riccardi ha dichiarato che niente sarebbe stato più come prima, all’annuncio dell’apertura della tendopoli resa effettiva nel febbraio di quest’anno per eliminare i vergognosi ghetti.

Oggi che la tendopoli viene pian piano assorbita da un ghetto di baracche costruite nel fango, noi constatiamo che invece tutto è proprio come prima, solo che i ghettizzati sono stati deportati nel deserto della zona industriale per non disturbare. Tutto è come prima a cominciare dalla consapevole indifferenza delle istituzioni nazionali alle condizioni in cui da vent’anni in questo ed altri territori si trovano a vivere migliaia di braccianti stagionali. Gente ch’è qui per lavorare, sennò non ci verrebbe a stagione ma ci resterebbe sempre… gente che da tanti anni gira le campagne d’Italia e tiene in vita un’agricoltura che scarica sul costo lavoro le strozzature del mercato. O ancora gente che ha conosciuto altri lavori e altre condizioni di vita, altri progetti oggi spazzati via dalla crisi.

Per loro, la linea del rigore inaugurata dal governo tecnico e benedetta dal Presidente della Repubblica vuol dire che se non servono più devono scomparire, nascondersi come topi o meglio tornare a casa o morire. Una linea del rigore a due velocità: una rapida e determinata per le grandi e futili infrastrutture come la TAV, una ferma sul binario morto delle opere di prossimità che aiutano la vita di un territorio, come l’illuminazione e la sicurezza stradale, le piste ciclabili… Per questo governo come per gli altri, come per la maggior parte delle istituzioni locali, è normale che nelle strade trafficate da braccianti a piedi e in bicicletta, al buio, la sera, che si spostano dal lavoro a “casa”, non ci sia illuminazione, non piste ciclabili, non limiti di velocità appositi.

È stato normale per vent’anni fino a diventare naturale, tanto che nessuno ha pensato a sollevare il problema anche dopo la tragedia dell’altro giorno. Poco conta che non tornasse dal lavoro, il povero Dyaby, che invece tornasse dalla spesa… questa è una morte sul lavoro, per il lavoro, e mai come in questo caso si può dire ch’è una morte nera, a sporcare la coscienza di tutti, imprenditori, uomini pubblici e semplici cittadini indifferenti.

Li vogliamo nei ghetti, che siano casolari diroccati occupati abusivamente o campi di contenimento con tende o container, o ancora “villaggi di solidarietà” fatti di cemento e prefabbricati. Come ci arrivano poi al lavoro o a fare la spesa, è un problema loro… e anche se muoiono, inevitabilmente, al di là delle manifestazioni di rituale cordoglio, resta un problema loro. E tutto questo a costo di spese ingenti, che giustificherebbero le opere minime di cui sopra o ancora trasporti pubblici, per tutti, anche tra diversi paesi, cosa che renderebbe più facile la mobilità a chiunque e possibile un’ospitalità ai braccianti diffusa tra vari centri… magari dentro case sfitte da riqualificare, a migliorare l’aspetto dei paesi e dare un po’ di respiro all’economia locale.

Se è vero che per l’allestimento della tendopoli si son spesi 500.000 € e che 300.000 ce ne vorranno per lo smantellamento, è facile considerare come la stessa somma avrebbe provveduto un posto comodo, in appartamento per 4, a 2.000 braccianti per due stagioni, lasciando questi soldi in un territorio che di solito vede flussi di denaro significativi solo in quanto legati all’economia mafiosa.

In un mondo migliore, questo percorso virtuoso sarebbe stato intrapreso con decisione istituzionale all’indomani della rivolta e oggi, a tre anni, ne vedremmo i primi risultati. Ma questo succederebbe in un mondo ideale.

In quello esistente, sempre più simile al peggiore possibile, lo sfruttamento organizzato dall’alto vuole la separazione e il controllo, a ogni gruppo la sua mansione, compresi i disoccupati, così nella gerarchia della povertà ognuno sta al suo posto e se si arrabbia se la prende con chi sta più sotto. E ben venga anche un accadimento come la rivolta a fare di Rosarno il mostro, il capro espiatorio locale di una questione che è nazionale… scaricare su un territorio che soffre la sofferenza di quest’umanità è una pratica istituzionale ormai consolidata che si evidenzia vieppiù con l’isolamento dei comuni come Rosarno e San Ferdinando, soli a cercare soluzioni d’accoglienza che animano di buone intenzioni la cattiva pratica del contenimento in campi, privati persino dell’interlocuzione da una Regione che non può avere la soluzione in tasca, certo, ma avrebbe sicuramente il dovere di occuparsi di quanto accade invece di ostentare un arrogante disimpegno.

Capiamo la loro disperata solitudine ma non giustifichiamo chi, insieme alla denuncia di condizioni gravi, agita lo spauracchio di tensioni tra gli africani, funestando il senso comune dei cittadini con l’incubo di una polveriera pronta ad esplodere… alimentando un’intolleranza ch’è figlia del disagio sociale e canalizza l’insicurezza in aggressività diffusa.

Nell’affannoso accavallarsi di dichiarazioni irresponsabili e penosi rimpalli istituzionali dell’ultimo mese, “Africalabria, uomini e donne senza frontiere, per la fraternità” ha continuato il suo lavoro di sempre.

Abbiamo riflettuto e discusso, calabresi ed africani, sulla situazione difficile e incresciosa che s’è generata nella tendopoli di San Ferdinando. Siamo andati a parlare con quelle persone, a conoscere chi vive in quelle condizioni estreme a due passi da casa nostra. Tutti contenti di vederci arrivare, di parlare con noi, di “essere parlati” come direbbe Corrado Alvaro.

Abbiamo visto sofferenza, abbiamo visto esasperazione, abbiamo visto disperazione, lo star male che rende gli uomini aggressivi tra loro per contendersi una coperta… ma non abbiamo visto pericoli di rivolta.

Non siamo indovini, non pretendiamo di sentenziare per il futuro, tanto più quando l’irresponsabilità istituzionale sembra in grado d’accendere con la benzina d’interventi scomposti anche la legna bagnata. Ma noi quel fuoco che cova di cui si parla non lo abbiamo trovato. Né guardandoci intorno ci sembra di trovare una situazione inedita…

Si parla di invasione. Noi diciamo che i numeri di quest’anno sono maggiori di quelli dell’anno scorso, ma simili a quelli che per tanti anni fino al 2010 hanno popolato la stagione degli agrumi. Si dice che non ci sono soldi. I Comuni di certo non li possono avere e va detto che hanno fatto tutti gli sforzi per realizzare le strutture d’accoglienza che prima non esistevano affatto, ma è assurdo pensare che un governo che ha sperperato miliardi per concentrare e segregare i disperati dell’emergenza Libia non possa affrontare e programmare l’accoglienza di alcune centinaia che ogni anno circuitano in questi territori.

Com’è possibile che la Presidenza della Repubblica risponda all’attuale situazione con 450 coperte realizzate con “materiale di seconda scelta e non commerciabili”? Come può succedere che un’istituzione come la Curia porti al moribondo un unguento di 10.000 euro, più che un sollievo un’estrema unzione, mentre lì c’è gente che quando piove dorme letteralmente nell’acqua? Se Africalabria, che non ha risorse ne agganci, riesce a far dormire su rete e materasso 60 persone che erano per terra e a portare periodicamente coperte e sacchi a pelo per gli altri, solo con gli aiuti che vengono da cittadini solidali, com’è possibile che altri, molto più potenti, non possano di più?

Mentre scriviamo, giunge notizia che dal comitato per l’ordine e la sicurezza alla prefettura di Reggio Calabria si decide di provvedere 70 tende da 6 posti e qualche centinaio di stufe… le monteranno insieme alle altre nel sito sbagliato o opteranno per quello inizialmente individuato, con gli allacci per le fognature, l’acqua e la luce, in un terreno che almeno non imbarca acqua se piove? Con quali soldi per la gestione? Con quale dotazione per i bagni ora fatiscenti? Con quali tempi per l’installazione? E davvero si pensa di sgomberare prima la baraccopoli e poi montare il secondo campo?! Ci sembra davvero d’assistere a un gruppo di bambini che giocano tra le tende coi cerini…

La verità è un’altra.

Se oggi c’è un’emergenza è perché questa è stata creata. Se oggi la Piana è abbandonata, quest’abbandono è pianificato. Se i braccianti africani vengono ignorati, è perché li si vuole invisibili. Se loro vengono qui, è perché ora non c’è altro dove andare e qui, anche quest’anno, le loro braccia continuano a servire. Se l’agricoltura è in ginocchio è perché c’è un sistema che di questa crisi si giova, contando che le clementine si vendano a 20 centesimi e che i disperati continuino a restar tali per essere disposti a raccoglierle a 20-25 euro al giorno.

Noi continueremo, con la campagna SOS Rosarno, a far sì che qualcuno possa vendere gli agrumi a un prezzo giusto e così assumere regolarmente i braccianti africani che coi loro onesti guadagni alimentino l’economia locale, affittando case, facendo la spesa, sostenendo l’agricoltura sana… e arricchendo il territorio d’intelligenze e cultura. Insieme a loro continueremo a fare di tutto per sostenere i disperati che un sistema feroce ricaccia periodicamente qui, usando il nostro territorio come una discarica umana.

Continueremo a denunciare le vere responsabilità e lottare insieme a queste persone perché si riconosca loro la dignità di uomini, lavoratori, cittadini. Continueremo a costruire, insieme a loro, nella piana, un futuro diverso, migliore, per tutti.

Da tutt’Italia stanno arrivando aiuti, coi camion che tornano dalla consegna degli agrumi, grazie alla collaborazione con i produttori siciliani de “Le galline felici”, nell’ambito della Rete dell’Economia Solidale del Sud.

Da tutt’Italia arriveranno volontari, grazie al sostegno della rete “Campagne in lotta” che da anni porta avanti un percorso di resistenza contadina e bracciantile.

A tutta l’Italia, che compra più o meno care al supermercato le clementine pagate sul campo a pochi centesimi a costo di tali tragedie, diciamo: è ora che scegliate da che parte stare.

Africalabria, donne e uomini senza frontiere, per la fraternità

Per info solidarietà: http://campagneinlotta.org/

 

 

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