La Nato, la Libia, l’Europa. Alla ricerca di Shangri-La?

Riprendiamo qui un’analisi di Ginaluca Pastori pubblicata su un periodico dell’Ispi, Istituro per gli studi di politica internazionale, sul ruolo della Nato in Libia e sui dubbi che tale intervento militare ha lasciato irrisolti.

Il coinvolgimento delle forze Nato nella crisi che ha portato alla caduta del regime di Mu’ammar Gheddafi in Libia ha sollevato sin dall’inizio una serie di perplessità.

La frattura evidente fra quanti – all’interno dell’Alleanza Atlantica – premevano per un coinvolgi- mento diretto dell’organizzazione nelle vicende in corso e quanti, al contrario, miravano a tenerla il più possibile fuori dagli eventi, ha fornito un esempio tangibile delle divergenze esistenti fra i partner euro-atlantici intorno ai temi dei nuovi assetti mediterranei.

Questa impressione è apparsa ulteriormente rafforzata dalla posizione di basso profilo assunta dall’amministrazione Obama sia nelle prime fasi dell’intervento multinazionale sia in seguito, quando la sua regia è passata a pieno titolo nelle mani della Nato.

Anche pre- scindendo da quelli che saranno gli esiti della vicenda (ancora in sospeso, se non quanto al risultato finale, quanto ai tempi e alle proporzioni) e dai giudizi (spesso assai critici) che sono stati dati sull’efficacia dell’azione militare alleata, questo stato di cose spinge ad alcune riflessioni intorno al processo di progressiva perdita di senso che sembra interessare l’Alleanza Atlantica e – parallela- mente – alle crescenti difficoltà attraversate dagli Stati Uniti nel riaffermare la propria leadership contro le sempre più forti tensioni centripete operanti al suo interno.

La morte del leader libico – con tutte le ambiguità che l’hanno ca- ratterizzata – non sembra avere influito in modo significativo su tale stato di cose. La decisione (formalmente provvisoria) della Nato di porre termine il 31 ottobre al proprio intervento pare rafforzare la posizione dei membri “astensionisti” (Stati Uniti in testa) e di una Francia in prima fila nel promuovere l’intervento e ora pronta a capitalizzare quelli che spera esserne i benefici. D’altra parte, la decisione dell’organizzazione non significa necessariamente il termine del suo coinvolgimento nelle vicende del paese nordafrica- no. Nonostante le assicurazioni del segretario generale Rasmus- sen e del comandante militare di Unified Protector, generale Char- les Bouchard, che – dopo la data prevista – nessun assetto Nato rimarrà «nelle vicinanze della Libia» e che le eventuali sacche residue di resistenza presenti sul territorio potranno essere gestite con successo dalle forze del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), una frattura profonda è già emersa rispetto alle posizioni di quanti – come la Gran Bretagna – ritengono necessario mantenere

in vita la missione finché continueranno a esistere minacce alla sicurezza della popolazione civile. Que- sta frattura – già significativa per il suo emergere nel momento stesso in cui la Nato conclude positiva- mente «una delle operazioni di maggior successo condotte nei suoi sessantadue anni di storia»1 – ac- quista ancor più rilevanza se si tiene conto di come essa coinvolga i tre paesi (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) che hanno fornito il maggiore contributo alle operazioni sul campo e che, per una ragione o per l’altra, rappresentano, oggi, tre dei pilastri (forse i principali) su cui si regge l’Alleanza Atlantica.

 

Ambizioni e limiti del nuovo Concetto Strategico

I nodi che la crisi libica ha fatto venire al pettine sono, in larga misura, quelli che da tempo l’Alleanza Atlantica si trova ad affrontare e che aveva cercato di sciogliere con l’adozione del nuovo Concetto Strategico (Ncs), sanzionata durante il vertice dei capi di stato e di governo tenutosi a Lisbona nel no- vembre 2010.

Nelle intenzioni dei suoi fautori, l’adozione del Concetto di Lisbona avrebbe dovuto chiu- dere – almeno in parte – la lunga fase d’incertezza seguita agli avvenimenti dell’11 settembre 2001 e alla problematica ridefinizione del ruolo della Nato nell’epoca della Global War on Terror (Gwot), dell’allargamento e della presenza in Afghanistan. Il documento approvato avrebbe dovuto fare il punto della situazione, rivedere l’insieme delle lezioni apprese (lessons learned) e ricondurre a unità – nel quadro del cosiddetto comprehensive approach – l’insieme delle intuizioni sviluppate nel corso dei dieci anni precedenti.

L’originale procedura “aperta” e “a tre stadi” adottata per la sua elaborazione (caratte- rizzata dalla centralità del segretario generale Rasmussen e del gruppo di esperti indipendente presie- duto dall’ex segretario di stato Albright, dall’ampio ricorso alla consultazione e dalla pubblicità garantita almeno alla prima fase dell’iter) mirava a costruire intorno alla nuova dottrina politico-militare dell’Alleanza il più ampio consenso possibile, sottolineando, allo stesso tempo, il carattere collegiale di un’organizzazione peraltro attraversata da profonde divergenze intorno agli stessi tratti del documento.

In questa prospettiva, il nuovo Concetto Strategico mirava a riaffermare la centralità della Nato, oltre che come strumento di stabilizzazione della scena internazionale e di proiezione di sicurezza “a braccio lungo”, soprattutto come luogo di convergenza e di compensazione degli interessi politici e di sicurezza degli alleati.

Lo stesso titolo scelto per la versione finale del documento (Active Engagement, Modern Defence2) esprimeva un significativo cambio di enfasi rispetto a quello del rapporto finale del gruppo di esperti (Assured Security, Dynamic Engagement3).

Lo spostamento dell’attenzione dalla dimensione della sicurezza a quella della difesa sembrava venire incontro ai timori di quanti – in Europa, ma non solo – temevano le implicazioni di una possibile “fuga in avanti”, verso le lande insidiose della securiz- zazione e del commitment globale. Di contro, la molteplicità delle sfide elencate nel delineare il nuovo scenario di sicurezza (dalla proliferazione missilistica e delle armi di distruzione di massa al terrorismo, dalle minacce alla sicurezza energetica alla “cybersecurity”, fino ai più ampi temi della human security, dei rischi sanitari e di quelli connessi ai cambiamenti climatici e al riscaldamento globale) contribuiva a delineare un quadro sufficientemente ambiguo da permettere le interpretazioni più ampie quanto all’evoluzione del ruolo futuro dell’Alleanza.

Nonostante le aspettative che lo avevano accompagnato, il nuovo Concetto Strategico lasciava, quindi, irrisolte proprio alcune delle domande profonde che avevano fatto ritenere necessaria la sua adozione e che, nel corso del processo di elaborazione, avevano animato il dibattito fra i fautori di un documento “di rottura” e quelli di un documento “di continuità” rispetto all’esperienza degli anni Novanta. Il Concetto, in particolare, non risolveva (o risolveva solo in parte) la tensione fra apertura e ripiegamento (sia in termi- ni geografici che di mission) che – in ultima analisi – costituiva (e costituisce) il vero oggetto del conten- dere all’interno della Nato. Conclusa – almeno per il momento – la fase dell’allargamento “come fine in sé” con il congelamento delle candidature di Ucraina e Georgia (2009) e il reset delle relazioni con la Russia, la priorità politica dell’Alleanza era la ricerca di un difficile equilibrio fra le istanze dei diversi gruppi di stati operanti al suo interno o, in alternativa, di strumenti operativi e procedurali capaci di con- sentirne la funzionalità – pur nell’impossibilità di conciliare interessi divergenti – entro un quadro “di toolbox” o di organizzazione “a geometria variabile”.

Da questo punto di vista, i risultati si sono dimo- strati molto inferiori alle attese, a loro volta, forse, eccessive per una realtà che ha sempre preferito caratterizzarsi in senso alquanto “conservatore”. Come è stato rilevato riguardo al rapporto finale del gruppo di esperti, «sebbene alcune delle raccomandazioni tocchino punti sensibili dell’Alleanza, esse non affrontano l’inaffrontabile, ovvero la mancanza di una percezione unitaria delle minacce e il modo in cui queste debbano essere priorizzate e affrontate».

In assenza di tale percezione, e a fronte degli inte- ressi contrastanti dei membri raggruppati in “cordate” più o meno omogenee, il rapporto si sarebbe tra- dotto in una lista di priorità mutuamente incompatibili, condannando – nonostante il suo carattere espli- citamente non vincolante – il nuovo Concetto Strategico a incapsulare «null’altro che le divergenze esi- stenti, a livello strategico, fra gli interessi dei membri della Nato».

Nell’ambito del crisis management – che pure il Ncs individua come uno dei core tasks dell’Alleanza – ciò si è tradotto in una generica quanto prevedibile riaffermazione della validità del comprehensive ap- proach alla luce dell’esperienza maturata in Afghanistan e nei Balcani occidentali e della necessità, per l’Alleanza, di «impegnarsi attivamente con gli altri attori internazionali, prima, durante e dopo la crisi, per incoraggiare la condotta collaborativa di analisi, pianificazione e attività sul campo, al fine di massimiz- zare la coerenza e l’efficacia dello sforzo complessivo»; nella priorità data all’azione preventiva, anche con l’adozione di iniziative volte a prevenire l’evolversi delle crisi in conflitti di più ampia portata; nel rilievo attribuito al contributo Nato nella gestione delle ostilità grazie alla sua «capacità ineguagliata di schierare e sostenere sul campo strumenti militari robusti» nel quadro di operazioni “Nato-led”; e nella necessità, per l’Alleanza, di continuare a fornire il suo sostegno alla comunità internazionale anche dopo il termine delle ostilità «al fine di creare le condizioni per una stabilità duratura», offrendo il proprio contributo nei campi della stabilizzazione e della ricostruzione «in stretta collaborazione e in consulta- zione – quando possibile – con gli altri attori internazionali rilevanti».

Quella che rimane impregiudicata è, invece, la questione dell’individuazione delle aree d’intervento e dei criteri per la loro definizione, attività rispetto alla quale il Concetto configura, peraltro, un ampliamento e un’intensificazione della consultazione politica fra gli Alleati e fra questi e i paesi partner «sia su base regolare, sia nella gestione di tutte le fasi di una crisi».

Incidentalmente, vale la pena di osservare come – riguardo a tale attività – il Concetto Strategico abbandoni il riferimento specifico all’art. 4 del Trattato nordatlantico che pure era individuato, nel rapporto finale del gruppo di esperti, come il suo riferimento privilegiato, «fornendo un’opportunità per condividere informazioni, promuovere una convergenza di vedute, evitare sorprese spiacevoli e spianare la strada per un’azione di successo, sia essa diplomatica, precauzionale, di rime- dio o a carattere coercitivo».

Confermando anche in ciò la sua intrinseca dualità, il nuovo Concetto Strategico sembra così delineare, da una parte, una Nato fiduciosa e pronta a operare à tous azimuts per affermare quello che propone come un ruolo globale ormai acquisito, tratteggiando, dall’altra, il pro- filo di un’organizzazione come sempre “riservata”, che – anche se non senza ambiguità – continua ad ancorare la propria azione all’obiettivo (costantemente riaffermato) di assicurare in maniera efficace la difesa e la sicurezza dei paesi membri «in un mondo che cambia, contro nuove minacce, con nuove capacità e con nuovi partner».

 

L’Alleanza alla prova della crisi libica

Significativamente, alcune delle divergenze che hanno contribuito a strutturare il rapporto finale prima, il Concetto Strategico poi, sono riemerse – più o meno sottotraccia – nel corso della vicenda libica. In particolare, gli avvenimenti che hanno portato all’avvio dell’operazione Unified Protector sono parsi confermare, da un lato, il sempre maggiore divario esistente fra le percezioni e gli interessi dei diversi membri Nato, dall’altra l’incapacità (o la mancanza di volontà), da parte degli Stati Uniti, di svolgere il loro tradizionale ruolo di guida di fronte alla postura interventista assunta da Parigi e Londra.

I partner europei sono giunti all’intervento militare in ordine sparso, in molti casi trascinati – volenti o nolenti – dall’iniziativa anglo-francese e senza una reale elaborazione né dei significati e delle implicazioni della c.d. Primavera araba, né della collocazione (reale o presunta) degli avvenimenti libici nel quadro di quest’ultima.

A tale proposito, la presa di distanza della Germania da un’operazione esplicitamente condotta su mandato Onu costituisce il segnale più chiaro dei dubbi esistenti – da questa parte dell’Atlantico – sull’opportunità di un intervento frettolosamente allestito e poco chiaro, sia quanto a obiettivi sia quanto a impegno richiesto.

L’assenza dalla coalizione internazionale dei “nuovi membri” Nato dell’Europa centro-orientale (con le limitate eccezioni di Bulgaria e Romania) costituisce una con- ferma di tali dubbi, e un chiaro segnale di come, indipendentemente dal funzionamento del meccanismo del consenso, non manchino – all’interno dell’Alleanza – valutazioni diverse non solo sull’opportunità di un coinvolgimento nelle vicende libiche, ma anche sulla priorità che esso deve avere nell’agenda dell’organizzazione.

Tralasciando l’“anomalia italiana” e l’approccio ondivago assunto dal governo nelle prime fasi dell’intervento (prodotto di esigenze contrastanti e del difficile tentativo di bilanciare “fedeltà” incompatibili, in ambito atlantico e fuori), anche l’atteggiamento degli Stati Uniti si colloca in tale pro- spettiva. Impegnata in una campagna (quella in Afghanistan) dal cui successo dipende gran parte della credibilità dell’attuale amministrazione e che, nei circoli del Congresso, è esplicitamente considerata il banco di prova della relazione transatlantica, Washington è stata la prima a relegare l’issue libica nella parte bassa della sua agenda.

Gli Stati Uniti hanno aderito all’ultimo momento all’iniziativa e, nonostan- te il massiccio spiegamento di mezzi messo in campo nei primi giorni (fra cui l’USS Mount Whitney, ammiraglia della VI Flotta e sede del comando operativo tattico dell’operazione Odyssey Dawn), il profilo adottato è stato volutamente limitato, quasi a rimarcare una presa di distanza rispetto all’iniziativa anglo-francese e a dare forma tangibile alle parole del segretario alla Difesa, Robert Gates, secondo cui, le vicende libiche non rappresentano una minaccia per Washington né il loro esito un interesse vitale per gli Stati Uniti.

Nel corso della campagna si è, quindi, assistito a una progressiva riduzione dell’impegno diretto delle forze aeree Usa, sia in termini di sortite, sia di attacchi (rispettivamente 5.300 e 1.200 alla fine agosto, contro i rispettivamente 200 e 60 giornalieri a livello Nato del periodo compreso fra l’inizio di Unified Protector e l’escalation di giugno, con le prime incursioni degli elicotteri d’attacco per rompere la situazione di stallo9), anche se gli Stati Uniti rimangono i principali fornitori della tecnolo- gia impegnata nelle operazioni.

Da questo punto di vista, il passaggio delle operazioni della fase multinazionale a quella “Nato-led” sembra avere rovesciato «l’opinione comune che un’operazione congiunta condotta in ambito Nato sia in sé garanzia di un forte coinvolgimento statunitense»10. Questa visione rispecchia, però, solo parte della verità. Nonostante il basso profilo pubblico, gli Stati Uniti hanno dato alla coalizione internazionale un contributo fondamentale alla condotta delle operazioni.

Essi hanno garantito il grosso del sostegno navale attraverso il dispiegamento in zona di operazioni di una dozzina di unità; i missili da crociera Tomahawk lanciati dall’USS Florida sono stati essenziali, nelle prime fasi dell’operazione Odyssey Dawn, per aprire i corridoi aerei sfruttati dalle forze della coalizione e per garantire a queste ultime la superiorità necessaria a implementare senza rischi la no-fly zone istituita il 24 marzo.

Gli Stati Uniti hanno integrato in modo consistente gli assetti necessari al rifornimento in volo delle forze della coali- zione, quelli per la gestione del traffico aereo e l’esercizio delle attività Awacs e Jstar, rendendo possibi- le la necessaria operatività 24/7. Washington ha, infine, fornito alla forza multinazionale la stragrande maggioranza del munizionamento di precisione, degli assetti d’intelligence e delle capacità per la pianificazione degli attacchi (in ambiente urbano e non), anche attraverso la concessione in uso dei propri droni alla Nato, autorizzata dalla Casa Bianca durante il mese di aprile, in coincidenza con una recrudescenza degli scontri intorno a Misurata.

Sebbene Washington abbia sempre negato la propria disponibilità a inviare truppe sul campo (fatto, questo, che non appare inficiato né dalle richieste avanzate in tal senso per la messa in sicurezza di parte dell’arsenale libico, né dal recente annuncio del Pentagono dell’invio di un gruppo di specialisti per la bonifica dell’ambasciata Usa a Tripoli11), personale Cia è stato, infine, impiegato nelle operazioni accanto a quello dei servizi di intelligence alleati.

La funzione di Washington – quella che ha rimarcato la sua natura indispensabile nel quadro degli at- tuali equilibri europei – è stata, però, un’altra. Con la loro partecipazione, gli Stati Uniti hanno offerto ai partner europei (soprattutto a quelli più riluttanti) la garanzia de facto che la missione si sarebbe co- munque svolta in ambito atlantico, ancora prima del coinvolgimento esplicito della Nato nella gestione e nella condotta delle operazioni.

Oltre a ciò, il massiccio contributo fornito in termini di assetti ha dimostrato ancora una volta che, sebbene l’iniziativa politica dell’intervento sia stata europea (un fatto che – come è stato sottolineato – rappresenta un punto di svolta nei rapporti transatlantici12), le sue possibilità di successo continuano a dipendere dalla capacità dei promotori di assicurarsi il sostegno – prima anco- ra che dei membri della coalizione incaricata di svolgere materialmente la missione (molti dei quali for- niscono un contributo meramente simbolico) – degli Stati Uniti, diluendo o modificando la propria agen- da in funzione delle priorità di questi ultimi.

Lo stesso coinvolgimento dell’Unione europea nella fase post-conflict (ormai più che probabile) appare destinato a ridimensionare il carattere “nazionale” dell’intervento originario, rendendolo meno indigesto anche ai paesi che, inizialmente, avevano assunto una posizione più defilata. In questa prospettiva, la multilateralizzazione della crisi ha rappresentato il modo di imbrigliare le ambizioni dei diversi “campioni nazionali”, contenendo la portata degli strappi intervenuti sia a livello Nato sia a livello Ue.

Non a caso, nonostante la scarsa iniziativa espressa a livel- lo politico, l’Ue è da tempo coinvolta in Libia attraverso l’omonima missione Eufor a sostegno all’attività di assistenza umanitaria.

Sul piano dei “contro”, questo duplice profilo di coinvolgimento europeo – in ambito umanitario a livello e sotto l’egida dell’Unione nel suo complesso, in ambito combat a livello di singoli stati e sotto l’egida Nato – concorre a perpetuare l’instabile – e, per molti aspetti, ambigua – relazione da tempo instauratasi fra Nato e Ue nel campo del crisis management. Dal lato dei “pro”, esso ha dimostrato invece come gli Stati Uniti continuino ancora a rappresentare i “grandi mediatori” delle divergenze europee.

L’incognita riguarda, piuttosto, se e quanto Washington sia ancora disposta ad accollarsi l’onere di dare unità d’azione politica a un’Europa sempre più divisa e tormentata dalle contrastanti ambizioni nazionali. L’intervento in Libia ha fruttato, all’amministrazione Obama, pesanti critiche, sia per il modo reticente in cui il coinvolgimento statunitense sarebbe stato deciso, sia per il modo poco efficace in cui le operazioni sarebbero state condotte.

Indipendentemente dalle loro valenze contingenti, tali critiche sono espressione di un’insoddisfazione profonda, che riguarda tanto il sistema delle relazioni Stati Uniti/Europa, quanto le implicazioni che tale stato di cose ha sulla Nato e sull’Alleanza Atlantica nel suo complesso. In altre parole, quelli che la vicenda libica ripropone sono, agli occhi degli Stati Uniti, gli ormai radicati dubbi intorno alla funzionalità politica di una Nato considerata incapace di esprimere una posizione coerente anche riguardo agli equilibri di una regione – come quella mediterranea – di proprio immediato interesse.

In quest’ottica, il fatto che l’intervento sia scaturito da un’iniziativa di due partner-chiave del Vecchio Continente come Francia e Gran Bretagna costituisce un altro elemento di preoccupazione. In quest’occasione, né Londra né Parigi hanno, infatti, dimostrato adeguate capacità d’iniziativa autonoma, né si sono dimostrate in grado di aggregare intorno alle proprie posizioni un livello di consenso tale da garantire all’intervento una sufficiente legittimazione, vuoi a livello internazionale, vuoi in seno alla stessa Nato.

Il fatto che, su ventotto membri dell’organizzazione, solo quindici siano impegnati nelle operazioni d’implementazione delle Risoluzioni 1970 e 1973, che solo sei siano impegnati negli attacchi aerei e che – nel suo complesso – la coalizione operante nei cieli e al largo delle coste in Libia risulti composta da appena quindici membri (contro, ad esempio, i quarantanove che, al 9 settembre 2011, componevano Isaf, peraltro operante in un teatro ben più distante e complesso come quello afgano) costituisce un segnale indicativo di tale stato di cose.

 

Conclusioni

In questa prospettiva, il termine delle operazioni militari in Libia sembra lasciare aperti, anche per la Nato, più interrogativi di quanti non ne chiuda. In questa come in altre occasioni, infatti, il successo sul campo e le mere dimensioni dell’attività operativa (più di 26.000 sortite; oltre 9.600 attacchi; circa 1.000 carri armati distrutti, insieme con un numero imprecisato di veicoli e di pezzi d’artiglieria, al sistema di difesa aerea e ad ampie porzioni della rete di comando e controllo delle forze armate libiche14) rischiano di oscurare le divergenze esistenti fra gli alleati, sia per quanto concerne la scelta dell’intervento, sia per quanto concerne la gestione della vittoria.

La richiesta avanzata dal Cnt (nella persona del ministro delle Finanze e del Petrolio Ali Tarhouni) di prolungare la missione internazionale «per almeno un me- se» oltre la scadenza del 31 ottobre15 offre all’Alleanza Atlantica la possibilità di procrastinare il momento degli inevitabili (e potenzialmente dolorosi) bilanci.

D’altro canto, essa contribuisce a perpetuare – aggravandoli – i dubbi sottesi alla sua azione. La frattura emersa in seno al fronte interventista attesta ulteriormente le divergenze esistenti intorno alla funzione ultima dell’organizzazione e, al contempo, pare concretizzare la possibilità di un mission creeping già anticipato poco dopo lo scoppio delle ostilità. Indipendentemente dallo schieramento o meno di forze sul campo (il temuto – o auspicato – boots on the ground) la possibilità è che, nel mutato scenario libico, l’Alleanza Atlantica si trovi coinvolta nell’ennesima attività di stabilizzazione/consolidamento open end. Una possibilità che, allo stato attuale delle cose, non farebbe che perpetuare l’incertezza esistente intorno ai compiti di una Nato che – seppure fiera delle proprie capacità militari – sembra fare fatica a contenere entro tale ambito il suo “livello di ambizione”.

In altre parole, l’esperienza nella crisi libica sembra mostrare quanto forte sia – anche dopo l’adozione del nuovo Concetto Strategico – la tensione dell’Alleanza Atlantica a quella che appare ormai come la ricerca della sua Shangri-La.

Ciò che l’organizzazione pare cercare sul campo di battaglia è il mitico regno perduto, promessa di una giovinezza e di un equilibrio che appaiono ormai da tempo dimenticati. Provata dalla fru- strante esperienza afgana (apertamente evocata come il “ban- co di prova” dell’Alleanza Atlantica e, parallelamente, sempre più ridotta a una complessa e costosa gestione del presente), attraversata da forti tensioni interne (di cui il proliferare dei caveat nazionali costituisce solo una delle espressioni), ancora indecisa fra la moltiplicazione dei compiti imposta da una lettu- ra sempre più estesa dell’idea di sicurezza e la volontà di con- centrarsi “su quello che sa fare meglio” (l’azione militare, sia in termini di deterrenza sia di compellenza), la Nato si è lanciata nell’avventura libica con riluttanza, trascinata, in parte, dalle pressioni di alcuni membri, marginalizzati dall’iniziativa franco- britannica, in parte dalla necessità – per l’amministrazione Obama – di non vedere il “mondo occidentale” spaccarsi sul tema dell’intervento armato, dopo l’assordante silenzio con cui ha accolto le sfide della Primavera araba.

Purtroppo, quella dell’Alleanza è stata – una volta di più – una semplice mossa reattiva, dettata dalla necessità di inseguire gli eventi e riaffer- mare, almeno a livello formale, la propria centralità nel teatro mediterraneo e nel campo delle operazioni ad alta intensità. Una scelta, questa, che, se poteva risultare pagante nel qua- dro certo e prevedibile della guerra fredda, appare oggi, quanto meno, sottodimensionata, sia rispetto al livello di ambizione dell’organizzazione, sia rispetto ai dubbi che i suoi stessi membri sembrano nutrire intorno al suo futuro.

 

Fonte: ISPI Analysis_71_2011ok

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