La Libia non può restare un campo di battaglia

Del Re: La Libia non può restare un campo di battaglia (HuffingtonPost.it)

La pericolosa e drammatica escalation di queste ore nel campo di battaglia libico, impone riflessioni e azioni concrete sia da parte dell’Italia, sia dell’Europa. Nonostante le proporzioni dell’emergenza del Covid-19 e il drammatico impatto che esso sta avendo sull’economia globale, ci troviamo ad assistere, a poche miglia dalle nostre coste, ad un conflitto che si protrae drammaticamente dal 2011, essendosi trasformato de facto in una proxy war.

Di fronte a questa situazione il nostro Governo si è impegnato affinché la Libia tornasse ad essere al centro dell’agenda europea. Con il vertice di Berlino dello scorso gennaio, a fronte di un conflitto intra-statale che vedeva contrapposto il GNA di Tripoli, riconosciuto dall’Onu, e l’LNA del Generale Haftar, i paesi dell’Unione Europea hanno, attraverso l’embargo e l’attivazione dell’Operazione EUNAVFOR MED IRINI, fissato quella che ad oggi sembra essere la condizione minima per evitare una continua e sanguinosa escalation: fermare il flusso di armi che i due protagonisti del conflitto stanno ricevendo da attori esterni.

E’ necessario che la missione IRINI sia operativa al più presto: solo fermando questi flussi si può, ragionevolmente, giungere ad una de-escalation che consenta la ripresa di un dialogo tra le parti che, anche al loro interno, sono molto più eterogenee di quanto possa apparire dalle semplicistiche e schematiche ricostruzioni. La stessa incertezza sul terreno, dovrebbe esser colta quanto prima dalla Comunità internazionale per rilanciare i negoziati e il dialogo nazionale tra le diverse fazioni della Libia.

È una sfida difficile, non solo per l’Europa, ma anche per il nostro Paese, viste le gravi emergenze del momento dovute alla pandemia. Vanno tuttavia comprese le ragioni del perché ci si deve impegnare per la Libia. Utile innanzitutto ribadire che una Libia instabile, con un perdurante stato di conflittualità, con il rischio di favorire il rafforzamento di gruppi estremisti e destabilizzare i paesi limitrofi, è una minaccia non solo per l’Italia ma per il bacino del Mediterraneo tutto. Come Paese che si affaccia sul Mediterraneo, e che da questo specchio di mare trae la sua forza economica in termini di trasporti marittimi, flussi energetici, commercio e cooperazione, dobbiamo impegnarci perché il conflitto in Libia giunga al termine.

L’approccio dell’Italia alla cooperazione nell’area Euro-Mediterranea – ma non solo – è decisamente innovativo e inclusivo. Si tratta di una partnership alla pari: intendiamo creare un rapporto donatore-beneficiario che non sia uni-direzionale ma bi-direzionale, ovvero che entrambi gli attori, donatore – l’Italia – e beneficiario – Paesi – siano consapevoli del reciproco vantaggio dell’esercizio della cooperazione, nel quadro di una inter-dipendenza ormai evidente nel nuovo assetto globale.

In Libia l’Italia è presente con numerose attività: nel biennio 2017-2018 sono stati stanziati 43 milioni di euro a dono dalla Cooperazione allo Sviluppo italiana e intorno a 79,3 milioni di euro come contributo del MAECI. Oltre 43 milioni di euro per il 2017 sono stati stanziati dalla DGIT (Direzione Generale degli Italiani all’Estero) sul Fondo Africa per attività in Libia, cui si aggiungono 2 milioni per il 2018.

Da novembre 2018, l’Italia è stata scelta dall’Unione Europea per gestire nel quadro della cooperazione delegata fondi europei per 22 milioni di euro per progetti a favore di 24 comuni della Libia per la ricostruzione di infrastrutture – strade, ponti ecc. – e contribuire alla riqualificazione delle municipalità anche da punto di vista amministrativo.

Altro aspetto fondamentale è la dimensione geografica nella questione libica. Non dobbiamo dimenticare infatti che la Libia confina con la regione del Sahel, a formare un corridoio unico di predilezione per numerosi traffici. Si tratta di un’area fragile, piagata da perduranti problemi di povertà e sviluppo e strettamente interconnessa con le dinamiche di sicurezza del nord Africa e di tutta l’Africa sub-Sahariana. Il Sahel peraltro è investito da una crisi in cui dinamiche di conflitto regionali si intrecciano a soggiacenti tensioni locali.

Sul piano transnazionale, non fanno che intensificarsi i problemi di sicurezza connessi a dinamiche di radicalizzazione, insorgenza di matrice jihadista, e forme di criminalità più o meno organizzata. Sequestri senza precedenti hanno confermato il massiccio ritorno del traffico internazionale di cocaina nella regione, mentre la crescita dei flussi di oppiacei sintetici, come il Tramadol, è trainata da una domanda per il consumo in crescita esponenziale, specialmente in Nord Africa.

Infine, la progressiva scoperta di un filone aurifero che attraversa l’intera regione ha stimolato una vivace industria estrattiva, che però sembra rimanga artigianale e informale: si teme che i proventi possano essere intercettati da gruppi armati di varia natura, con creazione di un racket della protezione da parte di gruppi armati non statali.

Il ciclo economico dell’area che si basava flussi migratori circolari, ha subito una pressione dalla riduzione dei flussi, con conseguenti derive che hanno portato ad attività illegali, consolidamento delle organizzazioni criminali più gerarchicamente strutturate, e crescente sovrapposizione di traffico e tratta di esseri umani. Sono molte le attività che l’Italia sostiene in partnership con UNHCR, IOM e altre agenzie nel Sahel per contrastare le attività criminali legate al contrasto al traffico di migranti. E’ veramente importante creare per la popolazione opzioni economiche alternative a quelle facili e di profitto immediato offerte dalla criminalità e dai gruppi terroristici.

In questo ambito la Cooperazione allo Sviluppo è fondamentale. Ad esempio ad Agadez, nel deserto del Niger, che ho visitato, vi sono diverse attività volte proprio a creare resilienza nella popolazione rispetto alle opzioni offerte dalla criminalità. Lo stesso governo locale è impegnato insieme a numerosi partner internazionali – sia paesi sia organizzazioni internazionali – in questo processo di sviluppo e di resilienza. Uno sforzo notevole che non possiamo non riconoscere e sostenere.

Da tempo l’Italia è consapevole dell’importanza di adottare un approccio olistico e ampio dal punto di vista dell’area interessata, e ha ampliato la sua dimensione e profondità strategica ben oltre l’ambito libico. Siamo infatti impegnati per la stabilizzazione nel Sahel sia sotto il profilo dei processi politico-diplomatici sia sotto quello dello sviluppo come ho avuto modo di ribadire nel corso della prima Assemblea Generale dell’Alleanza Sahel, tenutasi a Nouakchott lo scorso febbraio.

Siamo impegnati anche militarmente per contrastare queste sfide nel Sahel. Le nostre forze armate operano nell’ambito di missioni bilaterali di stabilizzazione sia sotto l’egida dell’Onu e dell’Unione Europea. Si tratta di azioni volte al rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità del Niger e dei paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritania, Chad e Burkina Faso) e concorre alle attività di sorveglianza delle frontiere. In questo sforzo multilaterale, il nostro Paese opera per sviluppare un approccio nazionale ed internazionale nella lotta contro il terrorismo ed il crimine organizzato.

La stabilità della Libia, nonché il Sahel, sono questioni di diretto interesse per noi. Abbiamo bisogno di mettere in campo strategie a lungo termine con risposte strutturali per affrontare tutte le sfide connesse alla regione (cambiamento climatico, desertificazione, controllo dei flussi migratori, contrasto alla criminalità organizzata transnazionale e al terrorismo). E’ chiaro che se la Libia resterà un campo di battaglia non sarà possibile agire davvero concretamente. Per questo è fondamentale che Italia ed Europa si impegnino per una duratura stabilità del paese.

Fonte: esteri.it

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