Intervista a Paul Rusesabagina a Padova

Il giornalista Ewanfoh O. Peter è andato a Padova lo scorso fine settimana, sabato 5 maggio 2012, per intervistare Paul Rusesabagina, il protagonista del film Hotel Rwanda. Dopo 18 anni dal genocidio e dopo un processo di riconciliazione calato dall’alto, nulla è cambiato, ci ha detto Rusesabagina.


Ruanda, 18 years after the 1994 genocide di afrikanews

Grazie signor Paul per aver accettato di parlare con noi oggi. Potrebbe iniziare col dirci di più su di lei?
Sono Paul Rusesabagina. Ogni tanto quando dico il significato del mio nome, qualcuno si mette a ridere. Rusesa in kinyarwanda significa “disperdere” e bagina significa “nemico”. Quindi Ru è “colui che allontana i nemici“. Questo è il significato del mio nome. Chi sono? Sono il protagonista reale di cui si parla nel filmHotel Rwanda” che molti hanno visto sugli schermi di tutto il mondo. Io sono il direttore di un hotel in cui ho nascosto 1268 persone che erano venute a cercare rifugio. Nessuno di loro è stato ucciso, nessuno è stato sequestrato e neanche picchiato. E’ questo il motivo per cui questo film parla di me.

Se non mi sbaglio, lei è nato da un padre Hutu e una madre Tutsi. Devono esserle molto chiare le diverse realtà di questi due popoli. Quali erano i rapporti di questi due gruppi prima del 1994?
Beh, è ironico avere due genitori che appartengono a due gruppi distinti. Non ero cosciente di queste differenze etniche fino al febbraio 1973 quando ho visto molti dei miei amici che venivano cacciati da scuola a causa di ciò che erano.

Com’era la situazione a quel tempo?

La situazione in Rwanda è sempre stata tesa e molto nervosa. C’erano sempre persone sospettose le une delle altre. Tra il 1959 e il 1963 250 mila Tutsi avevano lasciato il paese per andare in esilio. Così quelli in esilio attaccavano il paese, facendovi spesso ritorno. C’erano sempre tensioni tra i due [gruppi]. Tuttavia c’era stato un periodo di una sorta di silenzio tra il 1980 e il 1988 all’incirca. Poi arrivò il 1990 e incominciò la guerra. Il Rwanda visse il genocidio mentre si stava verificando una guerra civile che iniziò in quella data e la guerra civile causò un esodo. Dietro l’esodo delle popolazioni si nascondevano i ribelli. E così facendo i ribelli uccidevano i civili. La gente scappava un po’ dappertutto. C’era molta tensione fino al 1993, inizio 1994 quando potevamo vedere circa 2 milioni di persone intorno alla capitale, Kigali, che scappavano dalla città per poi farci ritorno per chiedere l’elemosina, andare a dormire all’aria aperta sotto la pioggia, sotto il sole, nella polvere, senza cibo, senza scuole per i bambini, la situazione era proprio brutta.

Quando ha capito che la guerra avrebbe assunto le dimensioni del genocidio?
Il giorno il cui i due presidenti del Ruanda e del Burundi, con i loro ministri, furono uccisi, il 6 aprile, la situazione cambiò radicalmente. Si capiva che qualcuno voleva il potere e lo voleva tutto intero e fu a quel punto che iniziarono i massacri. A quel punto capii che il governo non esisteva più; fu allora che compresi che era cambiato tutto e decisi di prendere la mia parte di responsabilità. Le persone che vennero a casa nostra, le dovevo portare all’hotel perché sapevo che erano in pericolo.

Considerando i rischi, com’è riuscito a prendere in considerazione l’idea di nascondere più di 1000 persone nel suo hotel?
Quando si vivono esperienze simili non si è mai preparati. Non ci si prepara mai per simili vicissitudini. Si fa solo ciò in cui si crede, ciò che la propria coscienza dice di essere la cosa giusta. Ascolti te stesso e questo è il modo migliore per affrontare la situazione. Nessuno è venuto al mondo per essere ucciso da un proprio simile.

 

Paul Rusesabagina intervistato in video da Ewanfoh O. Peter

 

Come hanno sottolineato alcuni esperti, voi ruandesi credete che ci siano influenze straniere dietro il genocidio?
Sicuramente. E’ ciò che continuo a dire. E mi lasci aggiungere che dietro ogni dittatura africana c’è sempre una superpotenza occidentale che manipola tutto. Da molto tempo, molte superpotenze occidentali volevano entrare in Congo e, ovviamente, soprattutto il mondo anglosassone. Così, attraverso i paesi anglosassoni dell’Africa orientale, hanno trovato un ponte che non era ancora stato attraversato e questo piccolo ponte era il Ruanda e, in parte, anche il Burundi. Era ovvio che per entrare in Congo quel ponte doveva essere attraversato. E’ qualcosa che andava avanti da molto tempo.

Mi lasci chiedere una domanda generale sull’Africa. Perché in molte zone dell’Africa, al contrario di quanto accade in Europa o nel mondo occidentale in genere, la gente tende ad essere meno nazionalista e più tribale e settaria nei suoi comportamenti sociali?
Ciò non si verifica solo in Africa ma nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Nella parte di mondo in via di sviluppo, in cui le persone arrivano al potere non democraticamente ma attraverso le armi, tendono sempre a mantenere il potere con la forza e con tutti i mezzi necessari. Così la loro politica è sempre quella del “divite et impera“.  Ciò non riguarda solo l’Africa, tuttavia in Africa c’è un’eccezione… All’occidente non piace vedere un essere umano intelligente alla guida dell’Africa perché il giorno in cui una persona intelligente, un nazionalista guiderà il loro continente allora nessun altro lo potrà più attraversare per sfruttarne i minerali o le nostre materie prime.

Ha un messaggio per la comunità africana di Padova?
Ecco per la comunità africana qui a Padova, in Italia e per tutta la diaspora africana, il mio messaggio è molto chiaro. Queste persone sono state qui. Sono i nostri ambasciatori, gli ambasciatori dei propri paesi. Devono far sapere al mondo che gli eventi dolorosi in Africa non sono ancora finiti. La battaglia continua. Le uccisioni continuano. La mancanza di spazi politici rimane ancora un problema. Le questioni dei diritti umani sono ancora un problema. Manca ancora la libertà di parola. Così devono essere i nostri ambasciatori. Fate sapere al mondo ciò che succede nel Continente.

Grazie molte per il suo tempo.

Intervista di Ewanfoh Obehi Peter

[Traduzione dall’inglese di Piervincenzo Canale]

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