Il futuro della Nigeria e dell’Africa

Gian Paolo Calchi Novati

Il prossimo voto – se e quando avverrà – in Nigeria per scegliere il presidente della Repubblica è più di una elezione, non assomiglia alle consultazioni elettorali che si sono succedute ogni quattro anni dopo la restaurazione di un sistema democratico basato sul multipartitismo. Per la prima volta non c’è un candidato pressoché sicuro di vincere prima che gli elettori vadano alle urne. E questo può essere il segno della maturità raggiunta dalle istituzioni politiche. L’altra novità – non propriamente di buon auspicio – è che di uno dei candidati maggiori, che è anche il presidente uscente, si contesta lo stesso diritto di “correre”.

Goodluck Jonathan è stato presidente per un mezzo termine come vice di un presidente morto durante il suo primo mandato, è stato eletto quattro anni fa e si presenta per quello che si potrebbe configurare come un terzo mandato (che sarebbe vietato dalla Costituzione). Come se non bastasse, Jonathan è un cristiano del Sud e un accordo sull’onore fra le due maggiori comunità religiose, di cui esistono peraltro anche delle versioni scritte, contempla il principio dell’alternanza fra un cristiano del Sud e un musulmano del Nord, con la facoltà di restare al potere per due mandati e non di più. Mentre Jonathan argomenta che i suoi primi anni come presidente appartengono a una consultazione in cui a imporsi fu un musulmano, gli avversari, di fatto la componente musulmana della popolazione e delle forze in campo, ritengono che il capo dello Stato stia infrangendo il tabù del terzo mandato. Il caso non ha precedenti e non esistono pronunce o interpretazioni capaci di fare testo.

Un’ulteriore incrinatura della fiducia fra cristiani e musulmani, già messa a dura prova da una diversa percezione dei risultati della politica in generale, potrebbe avere effetti gravissimi in tutto il paese. L’insorgenza islamista che fa capo a Boko Haram è solo un aspetto, di per sé drammatico e calamitoso, dell’ardua convivenza in Nigeria fra Nord e Sud e fra musulmani e cristiani.

Il quadro d’insieme può sembrare contraddittorio. Dal Nord sono venuti molti dirigenti del governo centrale (quasi tutti i capi dello Stato o delle giunte militari fino all’era Obasanjo). Il governo e l’esercito federale hanno soffocato la secessione tentata nel 1967 dalla regione sud-orientale con il nome di Biafra e capitale Enugu: è trascorso quasi mezzo secolo ma la memoria della guerra è ancora viva e il sentimento delle popolazioni del Delta è di aver subito un sopruso. Nel Nord sono situate le città che hanno fatto la storia degli hausa-fulani e le università sedi del sapere islamico. Ma sono nel Sud i centri del commercio con il mondo esterno e le fondamenta dell’economia di tratta dall’oil (olio di palma) all’oil (petrolio). Si è formato nel Sud, fra yoruba e igbo, il pensiero e movimento nazionale che si è fatto tramite dei modelli venuti dall’Europa. Secondo la storiografia nigeriana, fondata da J.F.A. Ajayi, il dominio europeo ha interrotto ed espropriato un processo di centralizzazione e in ultima analisi di modernizzazione ispirato dall’esperienza islamica che culminò all’inizio dell’Ottocento nell’impero di Sokoto. Con l’avvento del colonialismo, il fulcro della statualità e del progresso si è spostato verso le regioni meridionali aprendo un contenzioso che ha avvelenato le vicende della Nigeria indipendente. Anche oggi la “modernità” viene declinata piuttosto sui metri della società del Sud, che è quella più segnata anche esteriormente dall’influenza del mondo coloniale-occidentale.

Una delegittimazione di Goodluck Jonathan – con il disconoscimento del suo eventuale successo da parte del rivale più accreditato, Muhammadu Buhari, che si presenta alla testa dell’All Progressive Congress come il portavoce dei musulmani, o per l’impossibilità di votare in tutta sicurezza in certe zone del Nord-Est malgrado il rinvio dal 14 febbraio al 28 marzo – finirebbe per riproporre quell’insieme di fatti storici e narrative deformanti che costituisce la “questione settentrionale”. Jonathan è pur sempre il candidato del People’s Democratic Party, che è considerato il partito maggioritario e ha espresso tutti i presidenti da Olusegun Obasanjo (1999-2007) in poi (compreso il musulmano Umar Yar’Adua, che si affermò nel 2007 alla testa del ticket che comprendeva anche Jonathan). Il contraccolpo negativo non peserebbe solo sulle sorti della stabilità interna. La Nigeria è il “gigante” dell’Africa e le conseguenze non si fermerebbero alla Nigeria.

Da quando un diversa misurazione l’ha elevata al primo posto nella graduatoria dei paesi africani per volume dell’economia, detronizzando il Sud Africa, con cui è in lizza per l’egemonia nel continente, la Nigeria ha responsabilità che riguardano appunto tutta l’Africa (e non solo perché i combattimenti, di e contro Boko Haram, si stanno estendendo verso il Ciad e il Camerun). L’emergenza indotta dal jihadismo si concilia poco con le ambizioni di leadership. Non per niente è il Sud Africa e non la Nigeria a rappresentare l’Africa nei Brics e nel G20. La Nigeria rischia di essere essa stessa un “buco nero”. Molti dati del profilo socio-economico della Nigeria, del resto, sono ancora da paese molto sotto la soglia dello sviluppo e lontano da un’eguaglianza almeno accettabile.

La grandezza della Nigeria appare tanto più rilevante perché essa si trova in una regione, l’Africa occidentale, molto spezzettata. La “balcanizzazione” paventata da Senghor non trovò rimedio al momento della decolonizzazione in funzione dei residui disegni di egemonia nutriti dalla Francia e il nazionalismo territoriale ha fatto il resto. In Africa occidentale la Nigeria detiene quasi naturalmente una posizione di preminenza. È con tutta evidenza la potenza leader dell’organizzazione regionale per l’Africa occidentale, l’Ecowas, e ha spesso forzato l’agenda di un’associazione eminentemente economa utilizzandola in operazioni di peace-enforcing in Liberia e Sierra Leone.

Non è scontato che una simile sovraesposizione della Nigeria, che capitanò sia l’una che l’altra forza d’intervento, si sarebbe potuta verificare e potrebbe ripetersi in un paese francofono. Al tempo della guerra innescata dall’auto-proclamazione dell’indipendenza del Biafra, la Nigeria subì, se mai, una specie di offensiva francese o francofila. Se nel 2013 il governo di Hollande anticipò i tempi dell’operazione in Mali senza aspettare la formazione di un esercito africano, come prescrivevano le decisioni dell’Onu, fu anche perché di quell’esercito la Nigeria sarebbe stata ovviamente il perno.

Il governo nigeriano non condivide la preconcetta ostilità  del Sud Africa per la gestione extrafricana delle crisi africane. Per la sua posizione geopolitica e per la virulenza dell’attacco di Boko Haram, la Nigeria è più esposta alle crisi in cui compaia la minaccia jihadista e si rifugia sotto l’ombrello della war on terror. Passata la prima sorpresa, anche nella vicenda del Mali ha finito per offrire collaborazione alla Francia mettendo da parte i risentimenti. Per far fronte a Boko Haram, la Nigeria partecipa a progetti multinazionali che hanno coinvolto, oltre ad altri paesi dell’area saheliana, anche Parigi: se una simile coalizione può conferire qualche vantaggio sul piano militare (ma finora i risultati sono stati scarsi), essa rischia di  avere effetti controproducenti sulla compattezza nazionale toccando sensibilità di sovranità e identità molto delicate. Boko Haram, benché incompatibili con lo stragismo, i rapimenti e la costrizione di donne e bambini, sbandiera insegne come il patriottismo e il buon governo sfruttando spietatamente la discrasia fra Nord e Sud per reclutare adepti e allargare il consenso.

Sul modo di condurre la repressione il dibattito è aperto ai vari livelli della società nigeriana. I due partiti maggiori si accusano a vicenda di speculare sulla ribellione a fini elettorali. Non tutti accettano gli eccessi di  “militarizzazione” anche sul versante della risposta dello Stato all’attacco di Boko Haram. Un quinto del bilancio dello Stato serve a finanziare difesa e forze armate. Nei comandi dell’esercito sarebbe in atto una faida fra i fautori del Security First e gli ufficiali che credono di più in una strategia politica. Il fanatismo dei miliziani di Abubakar Shekau fa dimenticare i problemi socio-economici e religiosi. Un dialogo per la concordia nazionale è stato sollecitato anche da un consesso con la partecipazione delle massime autorità di tutte le fedi religiose.

Gian Paolo Calchi Novati, Ispi e Università degli Studi di Pavia
Fonte: ispionline.it

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