Il bicchiere mezzo vuoto della questione immigrazione

Quando le istituzioni, in Europa e in Italia, affrontano la questione immigrazione si ha sempre la sensazione che prediligano mezze soluzioni. In questi giorni nel Parlamento italiano si è discusso della proposta di legge sull’acquisizione di cittadinanza per i figli dei migranti che vivono nel nostro Paese, proposta che, per varie ragioni, lascia scontente le associazioni facenti parte della Campagna l’Italia sono anch’io. In questo caso si fa riferimento ad una parte degli immigrati, ovvero coloro che vivono da tempo in Italia. C’è però un’altra parte di stranieri, attualmente al centro dell’attenzione dei mass media che, attraverso nuove rotte, tentano di arrivare in Europa, per chiedere asilo o altre forme di protezione internazionale.

Per quanto riguarda il riconoscimento dello status di rifugiato siamo nel bel mezzo di un grande cambiamento. Accanto al sistema di riconoscimento tradizionale è partito un nuovo piano europeo sull’immigrazione che tenta di rispondere alle falle del “Sistema Dublino” con alcuni nuovi strumenti come gli hotspot e le quote (relocation). In realtà nei mass media se ne parla tanto e da tempo, ma intorno a questi due termini vi è molta confusione, in parte a causa dell’incompletezza di un sistema, quello del ricollocamento, ancora in divenire; in parte a causa di visioni ideologiche e parziali che serpeggiano ovunque, immiserendo il dibattito pubblico su un tema così delicato.

Di recente le Acli, come componenti del Tavolo Asilo, sono state convocate dal Ministero dell’Interno per una riunione a porte chiuse, insieme ad altre organizzazioni della società civile e rappresentanti della Commissione Europea, con l’obiettivo di fare luce sui meccanismi di ricollocamento e sul funzionamento di questi “punti caldi”.

Cosa sono gli hotspot? Non si tratta di nuovi centri creati ad hoc, ma di una gestione integrata fra Polizia di Stato e Agenzie europee (Europol, EASO, Eurojust e Frontex) della primissima accoglienza dei profughi e del loro ricollocamento in altri Paesi d’Europa, in base al meccanismo delle quote. Sono 160.000 i posti da coprire nei prossimi due anni nei vari Stati europei attraverso la relocation. Nello specifico, gli hotspost sono luoghi di frontiera/arrivo già esistenti in cui vengono svolte le azioni di salvataggio, lo screening sanitario, il fotosegnalamento e la compilazione del foglio di pre-identificazione. Il primo centro-pilota, avviato qualche giorno fa, è quello di Lampedusa dove sono già presenti gli esperti dell’EASO, chiamati a svolgere i colloqui per avviare le procedure di ricollocamento dei migranti che stanno arrivando in queste ore. Lampedusa è però solo il primo step (la durata di permanenza massima negli hotspot first line non deve superare le 48 ore); le persone destinate al ricollocamento vengono poi trasferite a Villa Sicania (Agrigento), in un centro second line, in attesa del vero e proprio trasferimento nei Paesi Ue. In Italia, oltre a Lampedusa sono previsti altri cinque hotspot (Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani, Augusta e Taranto).

E le tanto discusse quote, come funzionano? Il ricollocamento dei rifugiati si applica, va ricordato, ai richiedenti asilo provenienti dai paesi che hanno una percentuale di riconoscimento medio a livello Ue pari o superiore al 75% (con i dati attuali, i paesi coinvolti sono Siria, Eritrea, Iraq e Repubblica Centrafricana) e risponde al criterio di distribuzione secondo le quote, aggiornate ogni tre mesi da ogni singolo Stato. L’intera procedura di ricollocamento dovrà durare al massimo 2 mesi, a partire da quando il Paese di accoglienza comunica il numero di posti a disposizione. Quindi le quote – non le persone! – hanno una scadenza. Ciò significa che, al termine dei due mesi non decade il diritto del richiedente asilo di muoversi in un altro Paese, ma si chiude soltanto la possibilità di coprire quel determinato posto in quel determinato tempo. Il rifugiato dovrà allora attendere la comunicazione della successiva quota messa a disposizione dal Paese scelto o cambiare destinazione.

Per quanto riguarda i criteri di eleggibilità, possono essere ricollocate solo le persone arrivate in Italia dopo il 23 marzo 2015. A queste viene chiesto la loro preferenza circa il Paese in cui essere ricollocati e in base ad un matching con la disponibilità degli Stati, viene decisa l’assegnazione. Possibili criteri di precedenza sono: la presenza di parenti, la conoscenza della lingua e della cultura del Paese d’accoglienza e, più in generale, specifiche caratteristiche che facilitino la loro integrazione. La collaborazione degli esperti europei dovrebbe aiutare i Paesi di frontiera a gestire la ricollocazione con maggiore coerenza fra le richieste delle persone e l’effettiva sostenibilità dell’accoglienza nei diversi Paesi.

Quello delle quote è sicuramente un tentativo di occuparsi con maggiore serietà e coinvolgimento di accoglienza (almeno per una parte di profughi) con l’intenzione di condividerne il valore nell’intera “comunità europea”. Sul piano tecnico, sono apprezzabili gli sforzi per creare un sistema integrato e flessibile e, in particolare, per quanto riguarda i criteri di eleggibilità, il fatto che si sia provveduto ad un’estensione dei limiti temporali di chi è considerato “ricollocabile”: se in un primo momento si intendeva considerare tutte le persone arrivate nei paesi di frontiera dopo il 17 agosto 2015, tale limite è stato anticipato al 23 marzo.

Passando dai termini ideali della questione a quelli più “terreni”, nella prospettiva di chi, quotidianamente lavora sul campo a stretto contatto con i richiedenti asilo, vi sono però ancora molti nodi da sciogliere e diversi altri aspetti da considerare nel complesso mondo dell’accoglienza. In primo luogo, il sistema di ricollocamento, contemplando la clausola del riconoscimento medio del 75%, introduce un discrimine tra chi ha subito l’opportunità di iniziare una nuova vita e chi, invece, deve continuare ad aspettare. Questa soglia, dunque, crea migranti di serie A, ricollocabili, e migranti di serie B, ai quali, invece, vengono applicate le ristrettive procedure di Dublino che, a tutti gli effetti, non sono state annullate.

Un altro punto dolente sono le procedure di identificazione che sono ancor più cogenti di prima: la polizia di frontiera, insieme alle agenzie europee, dovrà procedere all’identificazione dei richiedenti asilo, conditio sine qua non per il ricollocamento. Nella quotidianità però, almeno all’inizio del processo, c’è il rischio di dover gestire la paura e la diffidenza dei migranti a farsi identificare. Su questo tema non c’è sufficiente chiarezza poiché le istituzioni continuano a sostenere che non si esce dagli hotspot se non si lasciano le impronte digitali, confidando in un’attenta e chiara attività di informazione che in teoria dovrebbe rassicurare i migranti sul loro destino.  Ma che fine fanno coloro che comunque non vogliono farsi riconoscere? Ci si può davvero fidare, come sostengono i funzionari della Commissione europea, dell’effetto virtuoso dell’informativa e del battage sui canali di comunicazioni informali (tra cui i social network) che si verrebbe a creare tra i profughi dopo le prime settimane di sperimentazione?

Un’altra questione irrisolta è quella relativa ai minori non accompagnati i quali, pur rientrando a pieno titolo tra i destinatari della relocation, rimangono in un limbo burocratico dovuto alla difficoltà di armonizzare le leggi dei diversi paesi sulla figura del tutore del minore.

Infine, il vulnus del sistema da risolvere quanto prima: cosa fare al di fuori degli hotspot, cioè nelle grandi città (Roma e Milano) dove è concentrato un consistente numero di richiedenti asilo arrivati in estate e quindi rientranti nel sistema di relocation? Nessuno ci aveva pensato. Per questo il Ministero dell’Interno in questi giorni sta cercando di tamponare la situazione e, attraverso una richiesta di collaborazione con la società civile, sta tentando di avviare nelle metropoli le procedure di ricollocamento, valutando un eventuale trasferimento del personale EASO a supporto. Questa fase di passaggio non sarà affatto facile da gestire per le organizzazioni che lavorano sul territorio le quali, occorre dirlo, avrebbero dovuto essere coinvolte da subito nell’ideazione di questo nuovo sistema per richiedenti asilo, con consultazioni preventive, e non ex post. Ma ciò non è avvenuto e l’alibi dell’emergenza non è sufficiente per giustificare il mancato confronto tra tecnocrati e “operai del sociale”: finché il dialogo fra le due parti non diverrà una prassi si avrà sempre il bicchiere mezzo vuoto.

da Cristina Morga e Angela Schito

Fonte: migrantitorino.it, Acli.it

 

 

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