Castel Volturno: un anno dopo

Se c’è un giorno in cui Castel Volturno non si dimentica dei migranti africani, questo giorno è il 18 settembre.

Sembrava un normale controllo di una volante della polizia ma in realtà erano criminali locali travestiti da agenti quelli che entravano in un negozio di africani. In pochi secondi uccidevano sei migranti africani.

La repressione sui migranti era il messaggio forte e chiaro che si deduceva da quel gesto. La repressione più decisa che l’Italia abbia conosciuto. Una nazione questa i cui rappresentanti politici sono noti per le loro politiche anti-migratorie.

Per anni, gli africani di Castel Volturno sono stati molto di più di un anonimo gruppo di persone. Erano come uccelli migratori che sopravvivevano sui resti di una città distrutta. Erano i minorenni senza voce e le vittime di una guerra di cui non avevano idea come fosse iniziata.

Il loro silenzio si era finalmente rotto dopo l’assassinio a sangue freddo di sei connazionali. Sono scesi per le strade affrontando la rabbia e la frustrazione. La piccola città di meno di 30mila abitanti è diventata un caos mentre si alzavano alte colonne di fumo dagli incendi delle automobili e dei cassonetti della spazzatura.

Venerdì 18 settembre 2009 ricorre un anno da quell’evento. Tuttavia i buchi dei proiettili stanno ancora lì freschi freschi davanti a quel negozio. La brutalità è la stessa di ieri nella mente dei migranti. La loro condizione è ancora schifosa come un anno fa.

Migliaia di loro, per la maggior parte Nigeriani e Ghanesi, sono come pecore smarrite in cerca di un rifugio. L’atmosfera rimane tesa mentre la vera domanda non è ancora stata chiesta.

“L’uccisione di 6 africani ha cambiato qualcosa a Castel Volturno?”

“No”, dice un migrante del Ghana. Era mezzogiorno e dozzine di africani stavano camminando lungo una strada di Castel Volturno, come un piccolo esercito. Molti sembravano esausti e tristi, un segnale del fatto che non si sentono di appartenere a questo posto.

“Ogni giorno è così” – continua – “cerchiamo un lavoro, ma qui non c’è niente per noi. Viviamo con tanta sofferenza e come dei reietti”.

Nel fabbricato affianco a quello dove ci troviamo sono appese tantissime paia di scarpe bucate insieme a pantaloni appesi un po’ ovunque. L’ha chiamata carità. Poi si è girato verso una costruzione che serve da magazzino come se la sola forza che potesse tenere insieme il suo spirito e la sua anima era nascosta lì.

“Ci sono stanze per poco meno di 50 persone qui, ma ci vivono in circa 200 migranti“, ha detto una delle suore chiamate dalla Nigeria per assistere queste persone in questa situazione disperata.

I vestiti erano sparsi apertamente per tutto il fabbricato. “Questa è la posizione in cui dorme ogni migrante”, mi è stato detto. Non c’è un tetto sopra le loro teste. Le loro facce sono piene di miseria, l’atmosfera, un esempio di crisi umanitaria. I più fortunati occupano delle case abbandonate senza elettricità e senza acqua.

L’integrazione non esiste qui. I migranti e la popolazione locale non condividono niente eccetto la conclusione che entrambi i gruppi non possono farne uno solo. Il crimine poteva essere visto e sentito, l’apprensione era ovunque.

La polizia e l’esercito pattugliano le strade 24 ore su 24 per contrastare il crescere della tensione.

Forse la criminalità, che qui ha radici lunghissime, non può essere fermata a breve ma si può evitare un altro 18 settembre.

 

Ewanfoh Obehi Peter

L’intervista di Piervincenzo Canale al deputato Touadi su Castel Volturno

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