Tunisia: madre si dà fuoco per scomparsa figlio

Difficile scrivere qualcosa di sensato quando una madre si dà fuoco e altre due tentano il suicido. E’ accaduto a Tunisi in questi giorni. Dopo il gesto di Jannet Rhimi, da giovedì ricoverata all’ospedale per le ustioni riportate, altre due madri hanno agito sul proprio corpo l’esasperazione di più di un anno di attesa.

Certo, c’è il dolore per i propri figli scomparsi, ma di fronte a gesti così estremi dovremmo chiederci tutte e tutti che cosa stia avvenendo e come sia possibile fare insieme qualcosa affinché non siano i corpi di queste madri a bruciare per poter ancora parlare.

Anche noi, che insieme alle madri e alle famiglie dei migranti tunisini dispersi abbiamo dato luogo alla campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano”, nell’ultimo periodo siamo rimaste silenziose. Che dire, infatti, dopo le infinite iniziative (sit-in, presidi davanti alle ambasciate, alle prefetture, lettere ai ministri) quando nulla riesce a scalfire il silenzio, il tergiversare, la non chiarezza con cui le istituzioni italiane e tunisine hanno deciso di trattare tutta questa vicenda?

Si scrive un comunicato, di solito, per comunicare qualcosa, per denunciare, per chiamare a un’azione.

Ma dopo l’azione comune del 30 marzo scorso, con i presidi davanti all’Ambasciata tunisina a Roma e quello delle famiglie e delle mamme dei migranti dispersi davanti all’Ambasciata italiana a Tunisi, non sapevamo più che cosa fare per farci sentire.

Le mamme, a Tunisi, ancora una volta avevano saputo manifestare tutta la loro radicalità di donne che impongono una domanda di vita, assediando l’Ambasciata italiana e accusando, con quel gesto, tutte le politiche dei patti, degli accordi bilaterali, della gestione e del governo delle migrazioni che hanno previsto la scomparsa dei loro figli e continuano a non rispondere sulla loro sorte. L’11 aprile, insieme alla delegazione dei famigliari in Italia abbiamo avuto un incontro, a Roma, al dipartimento dell’immigrazione della polizia delle frontiere in cui ci era stato comunicato che il primo dischetto con le impronte digitali, 142 impronte arrivate dalla Tunisia, era ancora al vaglio della polizia scientifica per fare il riscontro con il database italiano. Il riscontro di altre 112 impronte, invece, non era ancora iniziato. Poi, dopo qualche giorno, c’è stato un susseguirsi di notizie informali e smentite di queste stesse notizie in arrivo dalle istituzioni tunisine. Il riscontro era terminato? Non lo era ancora? Perché durava così a lungo? Il risultato era negativo?

Insomma, a più di un anno di distanza un’incapacità di parola e di trasparenza che esaspera il dolore e lascia spazio a tutte le ipotesi. Già, una sorta di delirio collettivo, è l’impressione di chiunque si avvicini a questa vicenda senza prendersi il tempo necessario per capire che cosa l’abbia provocato.

Partiamo allora dall’inizio.

Alcune madri e alcuni familiari riconoscono o credono di riconoscere i loro figli nei telegiornali italiani, altre ricevono telefonate dalle imbarcazioni che le avvisano che sono vicini all’arrivo. Quanto tempo sarebbe stato necessario a un’équipe dei due paesi per fare un riscontro su quegli indizi, a partire dalle capitanerie di porto per sapere se quelle imbarcazioni erano arrivate, decifrare meglio le immagini dei telegiornali, capire da quali celle telefoniche erano arrivate le telefonate?

E’ in questo frattempo, durato più di un anno e che continuerà a durare, dal momento che nessuna équipe è stata prevista né dall’Italia né dalla Tunisia, che ogni ipotesi è diventata possibile.

E’ la prima volta che succede: le famiglie chiedono conto, pretendono di sapere, vogliono i loro figli, vivi o morti. Contro le leggi del loro paese che, complici delle politiche di governo delle migrazioni dell’Unione europea, prevedono un reato di “emigrazione clandestina”, contro le politiche dell’Unione europea e gli accordi bilaterali tra l’Italia e la Tunisia che prevedono “quote” di visti, di ingressi regolari, così come “quote” di morti nei viaggi di tutti gli altri.

E’ la prima volta che succede ed è un altro effetto domino della rivoluzione tunisina: verso l’Europa, in questo caso, nella stessa direzione presa dai giovani tunisini per agire la loro libertà di movimento dopo la libertà conquistata con la rivoluzione. Madri, che con i loro corpi e le fotografie dei loro figli si presentano ad ogni visita ufficiale dei rappresentanti europei e italiani, che prendono d’assalto l’Ambasciata di un paese di destinazione urlando i nomi dei propri figli e con due striscioni in italiano e in arabo: “Da una sponda all’altra: vite che contano”, “La terra è di tutti/e”.

Ed è la prima volta che succede anche questo: i rappresentanti di due paesi, abituati a incontrarsi per dar corso ai loro accordi, obbligati ora a incontrarsi per scambiarsi impronte digitali non per espellere ma per rispondere alla richiesta di quelle famiglie. Non è un caso, dunque, il lungo tempo passato prima che ciò avvenisse e che ora, mentre il riscontro è in fase conclusiva, nessuno sappia prendersi la responsabilità di parlare con parole di trasparenza alle famiglie che li hanno obbligati a quell’operazione. Gli accordi bilaterali sono accordi di guerra e di scomparsa e le impronte solo uno degli strumenti per la loro realizzazione, non prevedono un linguaggio di vita che vuole figli, vivi o morti.

Nel frattempo, in questo tempo lungo, sono i linguaggi di tali politiche, a guardar bene, ad aver continuato a parlare nei termini di un delirio. E’ questo linguaggio il vero delirio collettivo, dal momento che è riuscito a diventare senso comune di fronte a cui non c’è uno stupore generale.

Qualche esempio: una ministra che di ritorno dalla Libia, ad inizio aprile, fa sapere che l’Italia finanzierà i lavori di ristrutturazione del “centro di trattenimento dei migranti a Kufra”, noto campo di concentramento e di stupro delle donne lì “trattenute” già finanziato dall’Italia; una portavoce dell’Acnur che suggerisce di coinvolgere anche le navi commerciali nei controlli per “intervenire tempestivamente” al fine di impedire che si ripetano le tragedie in mare; sempre la stessa ministra che chiede alla Tunisia nuovi accordi nel rispetto dei diritti umani ma che rafforzino il controllo delle coste, come se tra i diritti umani non ci fosse quello alla vita che proprio i controlli delle coste non riconoscono. Infine, la condanna dell’Italia da parte della Corta europea dei diritti dell’uomo; il cosiddetto caso Hirsi, accolto da tutti, antirazzisti compresi, come una vittoria contro i respingimenti in mare effettuati dall’Italia insieme alla Libia a partire dal 2009: 24 cittadini somali e eritrei rimborsati con 15.000 euro per essere stati respinti con violenza in Libia insieme ad altri 200 migranti, lì incarcerati, lì maltrattati, per una spesa complessiva da parte dell’Italia, per i suoi due anni di respingimenti, la sua complicità nelle incarcerazioni, nei maltrattamenti, negli stupri e nelle morti “libiche”, di 360.000 euro: nemmeno il costo di un bilocale in una città italiana.

Avremmo voluto, in tutti questi mesi, insieme alle mamme e alle famiglie tunisine, bruciare questa follia, smascherare il delirio dei linguaggi e vincere almeno una battaglia contro tali politiche. Poter dire non solo come denuncia, ma come realtà, che “da una sponda all’altra” siamo riuscite, per una volta, a far contare le vite, quelle dei loro figli che hanno bruciato le frontiere, le loro che hanno continuato a cercarli, le nostre che insieme a loro siamo sempre più immerse nei recinti delle vite che non contano.

Brucia, invece, il corpo di una mamma, bruciano le mani del marito che ha cercato di spegnere quelle fiamme, mentre altre due donne tentano il suicidio.

Non è il tempo dei comunicati. Forse, quello di chiederci tutte insieme come continuare ad affermare contro queste politiche che le vite contano.

 

Le Venticinqueundici

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