Rischio Nigeria: l’ombra di Boko Haram sul leone africano

Giovanni Carbone

All’inizio del 2015, la Nigeria terrà la quinta tornata elettorale consecutiva da quando, nel 1999, il paese è tornato a essere amministrato da un governo civile (le precedenti consultazioni si sono tenute appunto nel 1999 e poi nel 2003, 2007 e 2011). Si tratta di un fatto senza precedenti per uno stato che era rimasto sotto il dominio dei militari per tre-quarti della sua storia di nazione indipendente. Ad affrontarsi nelle elezioni del prossimo febbraio saranno il presidente in carica, Goodluck Jonathan, un ijaw cristiano del sud, in rappresentanza del People’s Democratic Party (Pdp), e Muhammadu Buhari, un fulani musulmano del nord che già aveva guidato il paese, vestendo l’uniforme, tra il 1983 e il 1985, e che oggi corre come candidato delle opposizioni, confluite l’anno scorso nel nuovo All Progressives Congress (Apc). Benché fino a oggi, a livello nazionale, il Pdp abbia vinto ogni singola elezione – presidenziale e legislativa – e abbia di conseguenza governato il paese nei passati quindici anni senza mai alternarsi con altre forze politiche, il regime quasi-democratico di Abuja rappresenta indubbiamente un notevole miglioramento rispetto a gran parte degli anni Settanta, Ottanta e Novanta.

La Nigeria arriva alle urne anche sulla scia di un grande slancio economico. Non solo si è lasciata alle spalle l’instabilità economica che l’aveva caratterizzata in passato, ma, tra il 2000 e il 2013, la crescita media annua ha registrato un invidiabile 8,2 per cento. Nel 2014, peraltro, il prodotto interno lordo è stato rivisto al rialzo sulla base di stime aggiornate: quella nigeriana si è ritrovata a essere l’economia maggiore in tutto il continente, con una dimensione pari a circa un terzo dell’intera economia subsahariana, scavalcando ampiamente il Sudafrica. Il petrolio, dal quale continuano a dipendere le esportazioni nigeriane e le finanze statali, rappresenta oggi solo una quota limitata di attività economiche che sono in realtà ben più più diversificate, con un particolare dinamismo in diversi comparti dei servizi.

I progressi politici ed economici che il paese ha compiuto rispetto ai decenni passati sono quindi evidenti. Insieme a una dimensione demografica che non può essere ignorata (circa 180 milioni di abitanti oggi, che diventeranno quasi 400 milioni in una trentina d’anni), questi progressi hanno elevato il profilo internazionale della Nigeria. Una recente indagine del Wall Street Journal, ad esempio, ha rivelato che le multinazionali occidentali collocano quello nigeriano in cima alla lista dei mercati di frontiera più attrattivi(1).

Ma esiste anche un’altra metà della storia, e lo sappiamo bene perché è in realtà l’unica che arriva alle cronache occidentali. Si tratta della crescente instabilità interna prodotta dal jihadismo di Boko Haram, una setta islamica militarizzatasi a partire dal 2009 e operativa prevalentemente – ma non esclusivamente – nelle aree del nord-est del paese. Il 2014 ha segnato un’ulteriore escalation nelle attività del movimento. Non solo è aumentato drammaticamente il numero delle vittime civili dei suoi attacchi, ma, a fronte della scarsa efficacia della risposta militare del governo, Boko Haram ha anche compiuto un’importante svolta strategica, cominciando ad affiancare alle attività di carattere terroristico un embrionale tentativo di occupare e controllare alcune limitate nicchie di territorio. Se, da un lato, le rivendicazioni di riforma radicale islamica (nel caso specifico, per una rigida applicazione della legge coranica, la sharia, a tutti i nigeriani e a tutto il territorio nazionale) fanno parte della storia di un paese in cui i musulmani rappresentano circa la metà della popolazione, dall’altro lato le violenze jihadiste sono la manifestazione estrema del diffuso malessere del nord. Un malessere tanto economico (le aree settentrionali sono mediamente ben più povere di quelle meridionali, e si sentono escluse dalla fase positiva che queste ultime attraversano), quanto sociale (quasi ogni indicatore di sviluppo umano, in particolare quelli relativi all’istruzione e alla salute, registra nel nord-est andamenti peggiori rispetto alle restanti aree del paese) e politico (il Pdp, che ha governato per dodici anni su quindici con presidenti originari del sud, viene ormai percepito come un partito che ha “tradito” ed emarginato il nord e i suoi problemi). Le violenze dei ribelli sono naturalmente il tema centrale della campagna elettorale, con il Pdp al governo accusato per i fallimenti sociali e per una risposta militare eccessiva e inadeguata al tempo stesso, e l’Apc all’opposizione sospettato di “simpatizzare” tacitamente per i jihadisti. Più in generale, tuttavia, Boko Haram è attualmente la massima espressione delle difficoltà strutturali e profonde nel gestire una società così straordinariamente complessa come quella nigeriana. Un’ampia popolazione in un territorio vasto, ma non immenso. Decine e decine di etnie distinte. Una cesura cristiani-musulmani con punte di forte politicizzazione. Un divario economico-sociale crescente tra regioni più dinamiche e regioni più arretrate. Una competizione spesso violenta per accaparrarsi i benefici della grande ricchezza petrolifera del paese (la destabilizzazione del nord ha distolto l’attenzione dai problemi del Delta del Niger, che era stato lungamente un epicentro di conflitti e offre oggi rinnovati motivi di preoccupazione(2)). Sono solo i principali ingredienti che rendono la Nigeria un colosso regionale per il quale la strada verso pace e benessere sarà ancora davvero lunga. Se, in chiave positiva, non sarà il 2015 ad arrestare l’attuale fase economica espansiva del paese (che pure risente dell’andamento al ribasso del prezzo del greggio), al tempo stesso dodici mesi non basteranno neppure a risolvere la complicata crisi politica e militare esplosa nel nord.

1. “Nigeria, Argentina and Vietnam Prove Top Picks for Multinationals”, Wall Street Journal, 6 giugno 2014.
2. “Nigeria. Danger looms as piracy booms”, Africa Confidential, 5 dicembre 2014.

Giovanni Carbone, ISPI e Università degli Studi di Milano

Fonte: ispionline.it

 

 

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