Regeni: “Pronti a trarre conseguenze”, Gentiloni

Gentiloni: «Piste improbabili e offensive Pronti a trarre le conseguenze se non ci sarà collaborazione» (Corriere della Sera)

«La fermezza e la dignità dei genitori di Giulio Regeni sono davvero esemplari. Motivo in più per le istituzioni per insistere con coerenza e altrettanta fermezza. Sulle risposte egiziane sentiremo in primo luogo le valutazioni del procuratore Pignatone. Se non abbiamo risposte convincenti, compiremo i passi conseguenti». Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni risponde all’appello lanciato ieri da Paola e Claudio Regeni, che hanno chiesto una «forte risposta» del governo se dalle autorità del Cairo non venissero novità sostanziali.

 

Cosa vogliamo esattamente dal governo egiziano?

«La verità, ossia l’individuazione

dei responsabili. Ci si può arrivare da un lato esercitando una pressione politico diplomatica costante, cosa che abbiamo fatto e stiamo facendo e che costituisce un deterrente contro verità di comodo, dall’altro con una collaborazione investigativa. Quest’ultima a nostro avviso deve fare un salto di qualità, perché anzitutto non sono stati consegnati tutti i documenti e materiali che abbiamo richiesto. Inoltre occorre poter svolgere almeno una parte delle indagini insieme. La collaborazione non può essere solo formale. Lo stillicidio di piste improbabili moltiplica il dolore della famiglia e offende il Paese intero».

Quanto siamo disposti ad aspettare per questo salto di qualità, prima di pensare a misure come il richiamo dell’ambasciatore?

«Non è questione di tempi, ma di metodi. Se la collaborazione diventa sostanziale, ci sono le condizioni per avanzare sulla strada della verità. La visita degli investigatori egiziani a Roma, prevista per il 5 aprile ma non ancora confermata, potrebbe essere l’occasione per un cambio di marcia. È chiaro che ogni decisione si può prendere in una fase successiva, se si verificasse che non ci sono margini per una cooperazione efficace».

Non ci stiamo facendo delle illusioni? Lo dimostra il caso della Russia, che nella vicenda del jet turistico abbattuto sopra Sharm el Sheik si trova ancora di fronte a un muro da parte delle autorità del Cairo.

«Di fronte alla mancanza di collaborazione valuteremo le misure possibili, ma noi ci auguriamo che i rapporti tra Italia ed Egitto possano dar luogo al salto di qualità necessario. Se non ci fosse, ripeto, saremmo prontissimi a trarne le conseguenze. Nel caso da lei citato, Mosca non ha rotto i rapporti diplomatici, ma per esempio ha bloccato i voli russi verso l’Egitto e quelli dell’Egypt Air verso la Russia».

In Libia siamo sempre allo stesso dilemma: processo politico o azione contro l’Isis? Quanto possiamo aspettare il primo senza compromettere l’efficacia della seconda?

«La situazione attuale ha molte fragilità. Negli ultimi mesi si è aperta una possibilità di governo unitario, su cui l’Italia ha investito, perché più di tutti abbiamo chiaro l’obiettivo di stabilizzare il Paese. Uno Stato fallito a 400 chilometri dalle nostre coste rischia di essere territorio totalmente libero per i trafficanti di esseri umani o preda di Daesh e base del terrorismo. Passi in avanti ci sono stati ma sono insufficienti. L’Italia insieme ai partner internazionali e regionali sostiene la determinazione del governo di accordo nazionale guidato da Serraj a installarsi a Tripoli. Lavoriamo per ampliare la sua base di sostegno politico. Tutto questo deve avvenire in tempi ragionevoli, altrimenti si rischia di far prevalere l’impostazione di chi sostiene che stabilizzare la Libia è una chimera e quindi bisogna far partire una campagna aerea massiccia contro le postazioni jihadiste».

Se questo avvenisse, cosa faremmo?

«L’obiettivo della stabilizzazione politica della Libia è oggi condiviso. Non è una posizione italiana, ma quella di tutta la comunità internazionale, sancita dall’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Bisogna perseguirlo tenendo conto che il tempo non è illimitato. La mancanza di risultati nel percorso negoziale potrebbe far abbandonare questa impostazione».

E l’Italia come si comporterebbe?

«Non abbiamo mai negato la necessità del contrasto al terrorismo, solo che applicato alla Libia come unica opzione oggi rischierebbe di essere controproducente. Ricordo che ci sono 5 mila combattenti di Daesh, ma 200 mila tra quelli delle milizie locali e islamiche, molti dei quali potrebbero trasferirsi nelle file jihadiste. Oggi Daesh è vista soprattutto come una presenza straniera, combattuta da forze libiche. Il pericolo è di alimentare l’acqua nella quale nuotano con un’azione esclusivamente militare».

In Siria, le truppe di Assad appoggiate dalla Russia avanzano nei territori di Daesh. Cosa significa per il processo politico? Cosa vi siete detti con Lavrov a Mosca?

«In Siria nell’ultimo mese il cessate il fuoco tra regime e opposizioni armate è stato sostanzialmente rispettato. I bombardamenti sono drasticamente ridotti. È stato un mezzo miracolo, di cui nessuno era certo a Monaco, in febbraio, quando abbiamo raggiunto l’accordo. Il prossimo passaggio è la ripresa dei negoziati, per verificare la possibilità di trasformarli in trattative dirette. Il ruolo di Usa e Russia è stato molto utile. Mosca insiste sul fatto che anche volendo, il che è da dimostrare, non sarebbe in grado di dettare la linea ad Assad. Noi siamo invece convinti che abbia un’influenza significativa. Il sentiero possibile è ridurre il ruolo di Assad già dall’inizio, anche senza cambiare la Costituzione. Putin e Kerry hanno confermato che entro 6 mesi si dovrà mettere in campo una “governance inclusiva”, cioè una nuova forma di governo. È chiaro a tutti che da questa crisi non si esce con un vincitore. E credo sia chiaro anche ai russi che Bashar Assad non può incarnare il futuro della Siria. Anche se Mosca insiste che la risoluzione del problema spetterebbe al popolo siriano in future elezioni».

Di fronte agli attentati di Bruxelles, cosa propone l’Italia in sede europea?

«Noi diciamo che servono risposte di sicurezza, ma che queste non esauriscono il nostro compito. L’Italia è il secondo Paese per presenza militare in Iraq. Nessuno può dire che non siamo consapevoli di questo, anche se abbiamo scelto come e dove impegnarci. Dopodiché, non si può bombardare Molenbeek, la sfida è culturale, sociale, politica, di dialogo con le comunità islamiche e di isolamento dei terroristi, oltre che di condivisione di intelligence».

Dobbiamo abituarci a società meno aperte di quelle attuali, sul modello di come fecero gli Usa dopo l’11 settembre?

«Da un certo punto di vista, sì. Per esempio non è accettabile che ci siano ancora titubanze sulla direttiva europea del 2012 sul Passenger Name Record, che consentirebbe di conservare per sei mesi i dati dei passeggeri sui voli nella Ue. Ma stiamo parlando di sfumature, che non mettono in discussione il diritto alla privacy. Qualche anno fa sarebbe stato impensabile avere i militari per le strade. Voglio dire che si tratta di accettare ragionevoli misure, non di rinunciare al nostro modello di società aperta».

 

Fonte: esteri.it

 

 

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