Nigeria: il petrolio da bonanza a maledizione

Lorenzo Simoncelli

In Nigeria nelle ultime settimane, analisti, economisti, politologi e persino la gente comune stavano con un occhio agli indicatori del prezzo del petrolio e con l’altro ai sondaggi elettorali per le elezioni presidenziali. Come spesso accade, si sono scritti fiumi d’inchiostro inutilmente. Da una parte perché il valore del crude oil, come prevedibile, ha ripreso a salire dopo il tonfo degli ultimi mesi, che lo aveva ribassato a 45 dollari al barile, assestandosi a quota 50-55, scongiurando le previsioni dei più pessimisti che avevano già dato per collassata l’economia del paese. Dall’altra perché era nell’aria che le elezioni del 14 febbraio sarebbero state posticipate.

Bisognerà, dunque, attendere il 28 marzo per capire quali riflessi possano avere gli esiti elettorali sull’industria petrolifera nigeriana. Anche perché fino allora, molto probabilmente le attività del mercato finanziario rallenteranno in attesa dei nuovi scenari. La decisione dell’Opec di mantenere la produzione a 30 milioni di barili al giorno, per contrastare la produzione statunitense del sempre più competitivo shale oil, ha avuto un impatto non indifferente sull’economia nigeriana, che, per chiudere in pareggio il bilancio, avrebbe bisogno di un prezzo del petrolio di 118 dollari al barile, praticamente il doppio dell’attuale. Un’autorete, dato che il presidente dell’Opec, Elison Madueke, è anche ministro delle Risorse petrolifere del governo di Goodluck Jonathan, l’attuale presidente in carica in Nigeria.

Le previsioni, per quello che valgono (il Fondo monetario internazionale aveva previsto l’ottobre scorso una crescita del 20% del crude oil a causa della minaccia Isis in Iraq e Siria), non sono positive. L’International Energy Agency ha rivisto al ribasso l’incremento della domanda di greggio, tagliando le stime 2015 a 90 mila barili al giorno. Goldman Sachs prevede si possa arrivare a una stabilizzazione a 50 dollari al barile. Se fosse così non basterebbe neanche a soddisfare il budget rivisto nella finanziaria 2015, in cui il governo  ha previsto il costo del greggio attestarsi sui 65 dollari al barile. È vero che rispetto al Venezuela, considerato il gemello sudamericano della Nigeria, ci sono 39 miliardi di risorse valutarie, che non bastano tuttavia per dormire sonni tranquilli, soprattutto quando si ha una popolazione di 180 milioni di persone, in ulteriore crescita. Sul breve termine gli unici a festeggiare sono i cittadini che hanno visto una riduzione del prezzo della benzina da 97 a 87 naira, la sforbiciata minore tra i grandi produttori di greggio mondiali, considerata troppo bassa dagli analisti locali se paragonata al crollo del prezzo del petrolio.

Chiunque vinca le elezioni a fine marzo, tre sembrano le immediate azioni da prendere in merito alla policy sul petrolio. anzitutto, la costruzione di raffinerie nel paese, dato che la Nigeria, come ha spiegato all’Ispi l’analista economico nigeriano Titus Okunrounmu, «è l’unico Paese dell’Opec ad esportare crude oil in grande quantità e a importare prodotti petroliferi raffinati». In seconda battuta, tamponare la corruzione che circonda l’industria petrolifera locale, dove, secondo un rapporto della Banca centrale, mancano all’appello 20 miliardi di dollari di entrate. Infine, cercare di diversificare l’economia del paese, il cui export dipende per il 95 per cento dagli idrocarburi.

L’incertezza politica, la persistente minaccia del gruppo jihadista Boko Haram e una ripresa dell’insorgenza dei guerriglieri del Mend nel Delta del Niger, proprio dove si concentra l’estrazione petrolifera, non rappresentano i migliori scenari per le aziende straniere interessate a investire nel paese, soprattutto per quelle legate al business dell’oro nero. «Il declino del tasso di cambio – conferma all’Ispi Muda Yusuf, direttore generale della Camera di commercio di Lagos – farà aumentare i costi produttivi delle aziende attive in Nigeria. Il crollo del prezzo del petrolio sta avendo un impatto negativo nel manifatturiero e il costo nel fare business aumenterà».

Uno scenario tutt’altro che positivo, che vede coinvolte anche le aziende italiane, Eni su tutte. La perdita di valore del greggio sta mettendo a rischio il modello esplorativo duale del “cane a sei zampe” previsto per sostenere gli obiettivi di cash flow della compagnia. Il prezzo di breakgiven per l’Eni è di 80 dollari al barile. L’ultima relazione finanziaria del 2013 già dimostrava come la produzione di petrolio in Nigeria (833 mila barili/giorno) era diminuita di 12 mila barili, passando da 85 a 73. E le tegole non sono finite dato che la Nigeria è l’unico paese della zona sub-sahariana a retrocedere rispetto agli anni scorsi. L’impressione generale è che ci saranno tagli sia per gli investimenti che per l’attività esplorativa. L’ipotesi è confermata dallo stesso amministratore delegato, Claudio Descalzi, che nel corso dell’audizione alla Camera del 28 gennaio ha spiegato come l’industria petrolifera stia riducendo gli investimenti in un “range tra il 10 e il 15 per cento”.

Lorenzo Simoncelli, giornalista free lance con base a Johannesburg

Fonte: ispionline.it

 

 

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