L’autobiografia di Binyavanga Wainaina

Dopo aver finito il primo capitolo del libro del keniano Binyavanga Wainaina, “Un giorno scriverò di questo posto“, ho pensato “ma perché questo tizio è così famoso nel mondo (almeno in quello della letteratura africana)? Non mi sembra eccezionale nella scrittura”. Poi tutto è cambiato.

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Non solo la sua vita, le sue avventure, le sue paure e le sue riflessioni sulle società africane e sulla sua famiglia plurietnica, multinazionale, e chi più ne più ne metta è davvero piena e interessante. Per di più lo stile di Binyavanga fa sì che queste 291 pagine scorrano come le acque di un fiume in piena.

Qui di seguito, alcuni dei passaggi che mi hanno colpito di più.

Chi ha provato la diversità più apparente e dolorosa conosce trionfali resurrezioni; hanno visto un mondo fallato, perciò sanno apprezzarne uno che funziona. Il carisma delle sue nuove abitudini invaderà tutta la casa. Sarò colonizzato. Ad ogni passo uccide Gesù che una volta all’anno sorride beatifico senza, in realtà, dire nulla.
Nonono. Ho un semplice patto da proporre. Rimanere senza vincoli e galleggiare. Seguire schemi facili e facili programmi. Dedicarmi solo a un presente che ti fa muovere le gambe dietro agli altri e ti mantiene la testa tra le nuvole. Essere fichi vuol dire non uscire mai dagli schemi in cui sei a tuo agio.
Troppe cose mi chamano, all’improvviso chiedono risposte qui e ora, chiedono che io sia tutto qui e ora. Il sesso ha cominciato a sussurrarmi all’orecchio, chiedendomi un piano d’azione. Che bisogno ho di queste cose? (…)

Gli inglesi hanno costruito le loro ferrovie, le loro strade e i loro satelliti; poi sono venute le persone e le strade che abbiamo costruito noi dopo l’indipendenza, sullo stesso modello ma un po’ stortignaccole ed esitanti. Poi, mentre i nostri genitori mettevano in tavola birra tiepida e porridge d’avena, in tv sono arrivati i Pronipoti: dinoccolati, chewing-gum in bocca, a venderci l’America.
E a fermentare all’interno di questo spazio, da una cinquantina di storie e punti di vista di etnie diverse, c’è il Kenya: (…)

Il vecchio sistema si è rovesciato: duecento anni fa il potere era nelle mani dei pastori di bestiame; ora è in quello degli stanziali, di chi pratica l’agricoltura di sussistenza, di chi ara la terra. Si sono adattati più in fretta a un mondo in mutamento. Cent’anni fa un surplus di cereali serviva a comprare bestiame. I kikuyu compravano bestiame dai masai. Già nel 1920 ogni surplus veniva trasformato in denaro contante, portando al crollo dell’economia dei masai”.

Tutti ballano il dombolo, una danza congolese in cui i fianchi (e solo quelli) si dovrebbero muovere come una pallina di mercurio. Per ballarlo nel modo giusto devi dimenare il bacino da una parte all’altra mentre il torso rimane rilassato come se stessi pranzando con Nelson Mandela. In qualsiasi ristorante del Kenya, un uovo fritto all’occhio di bue viene chiamato mayai (uova) dombolo.” (…)

In Kenya, verde è il massimo complimento che si possa fare alla terra: il verde è scarso, il verde è ricchezza, il verde è fertilità”.

Per noi kikuyu il nome è una specie di destino. Si sentono donne che chiamano i figli Daddy o le figlie Mummy: a forza di sentirlo ripetere, cresci rispecchiandoti nella persona da cui hai preso il nome. Ma io non conosco mio nonno. Non parlo la sua lingua. Essere Binyavanga è esotico anche per me: un ugandese immaginario di qualche specie risiede dentro di me, uno che mi permette di trattenermi dal rivendicare un’ascendenza indubbiamente kikuyu o dall’esservi ammesso senza esitazione“.

PC

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