“Ecco perché cammino per la pace”, John Mpaliza

Qui la versione integrale dell’intervista a John Mpaliza il giorno del suo arrivo a Reggio Calabria, a conclusione della marcia per la pace in Repubblica Democratica del Congo e in Siria, il 20 dicembre 2014.

La marcia da Reggio Emilia a Reggio Calabria, cosiddetta marcia Reggio – Reggio, è il seguito di una serie di marce che cominciano nel 2010 a Santiago di Compostela, nel 2011 Reggio Emilia – Roma, 2012 Reggio Emilia – Bruxelles via Strasburgo al Parlamento Europeo, 2013 Reggio Emilia – Padova, 2014 Reggio Emilia – Padova e poi sempre nel 2014 dal 20 di luglio fino ad oggi 20 di dicembre, 5 mesi di marcia, 153 giorni, 2400 chilometri, da Reggio Emilia a Reggio Calabria.

Da cosa nascono queste marce?

Questa serie di marce nasce da un dolore personale in quanto sono cittadino di origine congolese e in Congo c’è una guerra che va avanti dal 1996, una guerra economica legata sostanzialmente alla tecnologia che molto spesso abbiamo nelle nostre tasche, la tecnologia dei telefonini. Non solo i telefonini ma è tutta la tecnologia di ultima generazione. Se consideriamo le tv a schermo piatto, le console di gioco con cui giocano i nostri bambini, i computer, i tablet, praticamente tutti questi dispositivi elettronici per potere funzionare così bene oggi, sono ormai piccolissimi, sottili, così chiamati smart, praticamente hanno bisogno di un minerale che si chiama COLTAN, Columbite Tantalite, che è una sorta di sabbia nera, e che serve per una migliore gestione della corrente nei dispositivi elettronici. E’ un semiconduttore.

Tanto per capirci in passato si parlava di silicio molto spesso. Oggi si sentirà parlare di coltan. Il problema è che il coltan il buon dio l’ha buttato quasi esclusivamente in Congo, al punto che l’80% della produzione mondiale attuale proviene da questo paese e questo quasi quasi vorrebbe dire essere ricchissimi ma in realtà è la disgrazia del popolo congolese. Perché insomma oggi tutti dipendiamo da questo minerale. Oggi dipendiamo tutti dalla tecnologia. I ragazzi addirittura a scuola dicono che prima di dormire “io non ce la faccio più a dormire senza mettere la sveglia e la sveglia la devo mettere con il telefonino”. E se il telefonino la mattina non fa partire la suoneria significa che si è nei guai. Così dicono i ragazzi. Quindi in qualche modo noi dobbiamo capire che dipendiamo ormai da questa tecnologia, che questa tecnologia stessa dipende dal coltan, perché altrimenti per i telefoni, ad esempio, torneremmo all’età della pietra, cioè dai telefonini di oggi che sono dei computer, potremmo tornare ai telefoni così chiamati il mattone.

Quindi se noi dipendiamo dalla tecnologia, la tecnologia dipende dal coltan, il coltan arriva dal Congo, è lecito dire che noi dipendiamo da questo paese. Il Congo. Ogni volta che noi accendiamo un telefono al mattino noi cambiamo la vita a molte persone dall’altra parte. E ne muoiono. Chi fa il minatore molto spesso sono bambini che adesso dopo anni e anni di esposizione stanno morendo di cancro in quanto il coltan è anche radioattivo. Oltre a morire nelle gallerie che crollano. C’è un fatto che per poter prendere quasi gratuitamente dico gratuitamente il coltan … basti pensare che il coltan in Congo costa sui 20, 50 centesimi massimo 1 euro al chilo, in Europa costa circa 600 dollari al chilo. Non c’è una legge di mercato che in qualche modo autorizzi a prendere qualcosa a 20 centesimi, diciamo 1 dollaro, e poi rivenderlo a 600 dollari. Non c’è una legge se non praticamente creare delle situazioni di guerra perenne, una guerra continua, che autorizza, crea le condizioni, per potere in sostanza rubare, questo minerale.

In Congo è stato dimostrato che le multinazionali che realizzano i telefoni, quelli da cui compriamo i telefoni, spendono buona parte dei proventi, per in qualche modo continuare a finanziare i gruppi ribelli, continuare a finanziare i guerriglieri. Questa cosa è risaputa ma diciamo che il cittadino normale, quello che compra il telefono, non sa tutte queste cose. Io voglio sperare che se la gente sapesse questa cosa non potrebbe mettere in mano a un bambino di 11 anni un telefono che costa 800 euro.

Vado nelle scuole, perché appunto questo messaggio lo portiamo prima nelle scuole poi anche nelle chiese, nelle associazioni, però soprattutto dai ragazzi più giovani e ogni volta sono veramente stupefatto nel vedere che quando chiedo di far vedere i telefoni i ragazzi di 11, 12, 13 anni mi hanno detto anche di meno, hanno addirittura l’ultimo telefono che va di moda che costa 700, 800 euro. Questa è una cosa che è quasi inaccettabile.

Ci possono essere delle soluzioni?

Noi pensiamo di sì. Allora si sta lavorando per chiedere alla comunità internazionale la tracciabilità dei minerali. Tracciabilità vuol dire che domani andiamo a comprare ogni tipo di tecnologia che abbiamo appena citato e richiedere, se non viene presentato, un certificato che deve dimostrare dove è stato preso il coltan. In sostanza deve dire il coltan è stato preso in Congo e indicare la miniera dove è stato preso. In questo modo il cittadino può in qualche modo sperare di dire i miei soldi non stanno facendo il giro di morte cioè il giro insaguinato che va in qualche modo a continuare a sostenere a finanziare la guerra ma sta andando in qualche modo a costruire in quel punto lì.

Chiaramente serve anche la stabilità del Congo. Perché senza la stabilità ci può essere una legge sulla tracciabilità però non servirebbe praticamente a nulla. Quindi questa legge permetterebbe addirittura ai consumatori domani di poter fare delle campagne di boicottaggio contro chi il certificato non lo presenta. Tengo a precisare che questa legge sulla tracciabilità da sola non è sufficiente. Bisogna che si mettano, come dire, in atto delle misure che portino alla stabilizzazione del Congo, della regione dei grandi laghi, dell’Africa, perché con la guerra comunque se non il coltan continueranno con i diamanti, oppure anche per la legna, il legno pregiato che viene preso di nuovo nelle foreste congolesi.

Spiego questo ai ragazzi: le foreste sono un polmone per tutti noi. Quindi il Congo che ha la seconda foresta pluviale si vede tutti i giorni la propria foresta violata, alberi tagliati, e quindi di nuovo anche qui un traffico illegale di legname verso l’Europa.

Il riciclo dei telefoni potrebbe aiutare?

Una cosa molto importante riguarda il riciclo dei telefoni. Questa è un’altra soluzione. Noi ci chiediamo per esempio, passatemi questo termine: la riparabilità dei telefoni. Se mi si rompe la telecamere del telefonino, io non riesco a ripararlo. Anche se trovassi un tecnico bravo capace di sostituirla, non la troverà perché mi dirà che non ha un pezzo di ricambio. Quindi bisognerebbe in qualche modo un po’ spingere la gente a fare riparare. Ma bisognerebbe che questi signori mettessero in qualche modo, che dessero i pezzi di ricambio. Questo è molto importante.

Ma l’altro cosa che dicevo prima è il riciclo.

Tutti i minerali: il coltan, l’oro, cassiterite, cobalto, tutto quello che viene usato nei nostri telefoni non è che quando il mio telefono non funziona più quel minerale non c’è più. Quel minerale è ancora dentro. E quindi perché questi signori non possono recuperare e riciclare questo minerale, questo telefono, in modo tale che almeno in questo modo si può salvare la vita a qualcuno.

Le macchine vengono rottamate. Dall’auto si recuperano un bel po’ di cose. Plastica, acciaio, gomma. Perché non si può fare la stessa cosa con la tecnologia.

Nel mondo girano circa 2 miliardi di telefoni di ultima generazione, smart phones. In Italia vengono venduti al secondo ogni giorno 7 oppure 8 telefoni al secondo. Sono tanti veramente. Sapete dove vanno a finire di nuovo questi telefoni, la nostra schifezza quando non serve più, quando è rotta. Di nuovo in Africa.

Oggi, parlando con una signora, mi ha detto: “noi abbiamo raccolto dei telefoni usati da mandare in Africa”. E porca la miseria però. Di nuovo tutta la schifezza che non serve bisogna portarla in Africa. Bisogna smettere con questo sistema. O sei in grado di trovare delle cose che funzionano oppure non è detto che tutti debbano usare il telefono tutti i giorni.

Questo sistema che tutto ciò che si fa in Europa si deve fare anche in Africa, non si può omologare, non si deve rendere tutto uguale praticamente. La nostra schifezza, i telefoni che vengono presi qua o sono obsoleti o cominciano a non funzionare più perché allora ne compro un altro. Quindi lo mando in Africa e lì dura due, tre mesi e diventa un rifiuto.

C’è poi anche il traffico illegale di rifiuti tecnologici dall’Europa, dall’occidente verso l’Africa. In Ghana c’è la discarica più grande del mondo di elettronica. Chi va di nuovo a bruciare la tecnologia quindi televisori, computer vecchi, telefoni vecchi per recuperare dei minerali sono bambini. Come in Congo. Bambini che muoiono di cancro oggi lì in questi posti ma anche in altri come in Cina e in India, bambini che vanno a morire perché respirano diossina nel tentativo di bruciare per recuperare minerali.

Ora noi ci chiediamo se dei bambini vanno a bruciare questa nostra schifezza e poi dopo ne recuperano dei minerali perché non lo possono fare delle multinazionali. Perché loro non vogliono spendere soldi. Però dovrebbero essere obbligate a spendere un po’ di soldi per mettere in piedi un processo produttivo che in qualche modo si occupi del riciclo. Del riciclo dei telefoni. Recuperare il coltan, recuperare l’oro che c’è nelle schede madri dei computer, recuperare il cobalto che c’è nelle batterie, tutto quello che può essere recuperato. La plastica addirittura.

Noi pensiamo che questi signori debbano essere obbligati a recuperare i telefoni. A questo ci deve pensare la società civile, gli stati, perché quei signori da soli non dico che non ci arrivano, lo sanno, e hanno anche la tecnologia, però a loro non interessa. Interessa prendere quasi gratuitamente il coltan. Interessa a loro semplicemente il guadagno.

E i diritti umani?

Non l’umanità delle persone. Noi in Italia, in Europa, nell’occidente, ormai ce ne freghiamo anche dei diritti umani. Ma noi sappiamo dove vengono in qualche modo assemblati questi telefoni? Non in Congo ma di nuovo in questi paesi del sudest asiatico dove in sostanza non c’è neanche il rispetto dei diritti umani.

Allora 20 anni fa lottavamo contro i prodotti cinesi in quanto si sapeva che non c’era rispetto dei diritti umani. La domanda è: cos’è cambiato in questi ultimi anni? Praticamente nulla ma oggi noi abbiamo chiuso gli occhi. Perché ormai tutti in questo capitalismo sfrenato, questo benessere che poi non guarda veramente, non vede neanche lì vicino il nostro prossimo, non l’africano ma qualcuno che sta dormendo fuori, ormai non ci interessa più. E tutti abbiamo anche smesso di lavorare per rispetto di chi ci consegna praticamente la sua vita tramite il lavoro per la nostra tecnologia o altre cose.

Noi abbiamo smesso di considerare i diritti umani come qualcosa per cui lottare tutti i giorni. Quindi compriamo tutto. Sfido chiunque di noi a prendere o la giacca o la camicia o gli slip o le scarpe e non trovare qualcosa made in…, made in China, sempre in quei paesi dove c’è tutti i giorni violazione dei diritti umani.

Che Italia hai visto attraverso le tue marce?

Questa marcia mi ha portato a girare tutta l’Italia da nord a sud dove ho visto veramente gente, che siano africani, europei dell’est, ma anche italiani che lavorano in condizioni a volte, non a volte, in condizioni disumane. A prezzi veramente che non si può immaginare. La questione dei diritti umani non è soltanto in Cina oppure in Africa ma riguarda anche noi stessi qua.

Questa marcia ci ha portati a  girare nelle scuole per spiegare anche questo. Perché i giovani che noi consideriamo il futuro è molto importante lasciare loro gli strumenti necessari per essere veri adulti domani, veri dirigenti domani e soprattutto noi pensiamo che la parola pace in qualche modo debba tornare di attualità perché non è accettabile che tutti i giorni, e questo lo dicono i ragazzi, i bambini, che noi ogni volta che accendiamo la televisione vediamo solo bombe e guerre. Ecco non è accettabile che continui a vedere soltanto bombe e guerre. Io continuo a dire che se c’è la guerra da qualche parte vuol dire che c’è pace da qualche altra parte. Allora mi chiedo perché non può esserci anche un po’ di pace nel mio paese di origine, in Congo, in Africa, in America Latina, in Asia?

I ragazzi ormai hanno anche capito perché dicono: “Ah ma non ci può essere pace perché poi dopo ci costa tanto la luce, perché si fa la guerra per il petrolio, per il gas, oppure ci costa il doppio il telefono. Allora se è solo questione di soldi, spetta a noi cittadini in qualche modo cercare di cambiare il nostro stile di vita.

E’ molto difficile lo so però è l’unico modo. Per questo vado dai giovani perché i giovani sono sempre pronti. I giovani hanno ancora possibilità di cambiare. Non sono ancora stati in qualche modo condizionati.

Questo è un po’ il succo di questa marcia che non ha l’obiettivo di cambiare il mondo ma dare il proprio contributo andando verso il più piccolo, andando verso chiunque abbia questa volontà di sapere quello che succede non tanto molto lontanto perché l’Africa è qua vicino, siamo in Calabria, in modo tale che sapendo del problema si possa trovare una soluzione.

Che programmi hai per il futuro?

Ecco noi abbiamo incontrato tantissime persone, tante scuole, enti locali, chiese, e questo penso dopo 5 mesi di marcia adesso bisogna riposare un pochino, capire cos’è successo, e cosa bisogna cambiare nelle marce che devono venire.

Hai in progetto altre marce?

Sì c’è in progetto qualche altra marcia. Io spero sempre che sia l’ultima. Cioè nel senso che magari perché io ho detto io marcerò per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo dramma che si vive in Congo, si vive in Siria, si vive in Palestina, questi paesi dimenticati però per quanto riguarda il mio paese ho sempre sperato ogni volta che sia l’ultima marcia.

Però purtroppo già ne sto preparando un’altra. Adesso si sta parlando molto della questione dei minerali, del coltan in Congo e non è il momento di fermarsi. Bisogna continuare affinché ci sia più gente che ne sa. Adesso la marcia è finita è tempo di riposare un po’. Dal 19 di gennaio comincerò ad andare nelle scuole, dove siamo passati quando erano chiuse, fino alla fine del mese di marzo. Poi ad aprile comincio una marcia che va da Reggio Emilia. Sempre perché io vivo a Reggio Emilia da 18 anni, in Italia da 21 anni. Questa marcia quindi parte da Reggio Emilia, passa da Padova, Trieste, Udine, poi cambiamo direzione andiamo verso Varsavia, e da Varsavia cambiamo di nuovo direzione e andiamo verso Helsinki in Finlandia. Toccherà di nuovo tantissimi paesi. Nel 2016 penso di andare verso l’Africa perché le vere battaglie per l’Africa, per il Congo si devono fare lì. Non qua. Qua è importante informare le persone, i giovani, perché i giovani di oggi che sono qui e quelli che sono in Africa domani saranno chiamati a confrontarsi e quindi qua sensibilizzare ma sensibilizzare anche dall’altra parte.

Ecco questo spero che insomma speriamo che il buon dio ci guidi ci dia anche la forza di continuare e soprattutto che apra un po’ i cuori di queste persone che ascoltano affinché tutto quello che prendono in qualche modo sia elaborato bene e soprattutto sia anche riportato agli altri perché noi andiamo raccontando sperando che soprattutto i ragazzi che anche loro facciano da megafono un pochino a questa campagna che stiamo portando avanti.

 

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