Crisi libica: quale ruolo per l’Italia?-Ispi

A seguito dell’incontro di oggi tra il ministro degli Esteri, Franco Frattini, e il responsabile per la politica estera del Consiglio nazionale di transizione (Cnt), Alì al Isawi, l’Italia ha riconosciuto l’organo di rappresentanza dei ribelli libici come unico interlocutore legittimo nel paese.

Questo riconoscimento, che avverrà in maniera formale, rappresenta un ulteriore e decisivo passaggio dell’Italia da un’iniziale posizione attendista, di fatto favorevole al mantenimento dello status quo in Libia, a una politica più attiva e proiettata al dopo-Gheddafi.

L’Italia si muove anche sul fronte tunisino per contenere l’emergenza umanitaria.

Il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, si è recato a Tunisi per chiedere al premier del governo transitorio tunisino, Beji Caid Essebsi, e al presidente ad interim, Foued Mebazaa, la collaborazione nel campo del controllo dell’immigrazione.

Intanto sulla questione libica sembrano farsi largo alcune ipotesi, come quella di una possibile transizione guidata dal figlio maggiore di Gheddafi, Saif Al Islam, e la possibilità di una mediazione tra lealisti e ribelli.

In questa situazione l’Italia, che ha rilevanti interessi politici, economici ed energetici da garantire, continua ad avere fra gli occidentali la posizione in assoluto più difficile.

Per Roma le incognite sulla ricerca di una strategia di uscita appaiono quindi strettamente legate alle possibilità di giocare un ruolo attivo in questa crisi e, quindi, di non subire passivamente le conseguenze di decisioni altrui.

  • Angelo Del Boca (storico): “Penso che l’Italia non abbia margini per giocare un ruolo attivo. La gestione della crisi libica da parte del governo è stata troppo indecisa e ondivaga fin dall’inizio. Ora questa visita di Berlusconi in Tunisia potrebbe porre rimedio almeno alla questione dell’immigrazione, mentre dovremo vedere come realmente cambierà la politica italiana dopo l’incontro di Frattini con l’esponente del consiglio nazionale libico.
    Gheddafi pare non ritenerci più degli interlocutori credibili: questo è evidente dal fatto che abbia mandato suoi emissari in Grecia e in Turchia piuttosto che da noi.
    Quindi l’Italia difficilmente potrà avere un ruolo di mediazione.
    Abbiano tenuto un atteggiamento troppo equivoco: siamo partiti con una battuta infelice per poi accodarci all’azione militare senza ottenerne i benefici di averla ideata. Oggi neppure vi è chiarezza sulla nostra partecipazione militare, quale ruolo abbiamo e che missioni compiano i nostri aerei.
    L’Italia dovrebbe essere rammaricata: avevamo un trattato di amicizia, questo era il momento perché questa amicizia desse i suoi frutti”.
  • Federiga Bindi (Johns Hopkins University): “Certamente Berlusconi è abile nell’interpretare l’umore nazionale – diviso tra un’opposizione ad un intervento nel giardino di casa e la sensazione che tuttavia l’Italia debba supportare gli alleati occidentali. Ma ciò potrebbe significare che sta tenendo per sé le ultime carte da giocare, cioè il negoziato diretto con Gheddafi per convincerlo a un’uscita di scena onorevole e remunerativa.
    Questa possibilità è stata ventilata, ma non è stata ancora presa seriamente in considerazione a livello internazionale. Mentre una situazione di stallo appare all’orizzonte, è tempo di valutare nuovamente tale ipotesi.
    Berlusconi è l’unica speranza di successo per l’Occidente in caso di difficili negoziazioni con Gheddafi”. (Dall’articolo “Berlusconi to negotiate the Libya deal?” su www.publicserviceeurope.com del 29 marzo)
  • Angelo Panebianco (Corriere della Sera): “Noi italiani non siamo abituati a pensare alla politica internazionale in termini realistici. Non è passato in fondo troppo tempo da quando più di metà degli italiani stava sempre con gli americani a prescindere e i restanti italiani con i sovietici, sempre a prescindere.
    Siamo impreparati a un gioco in cui dobbiamo bilanciare solidarietà con gli alleati, perseguimento, quando è possibile, di «buone cause» e attenzione ai nostri interessi.
    Lo fanno gli altri, dobbiamo farlo anche noi.
    È una caratteristica di tutte le coalizioni di guerra: gli alleati hanno una causa comune ma anche interessi non coincidenti.
    Mentre a francesi e inglesi importa ridimensionare la nostra presenza in Libia noi abbiamo l’interesse opposto.
    Dovremmo impegnarci fin da subito, a guerra ancora in corso, in un piano di ricostruzione della Libia.
    Su questo terreno, grazie ai nostri storici rapporti con quel Paese, abbiamo un possibile vantaggio rispetto agli alleati e dovremmo sfruttarlo al massimo.
    Abbiamo bisogno di riprendere l’iniziativa e siamo certamente in grado di farlo più nell’ambito economico-civile che in quello strettamente militare (ove il nostro apporto non potrà essere determinante)”. (Dall’articolo “Noi rischiamo di più” sul Corriere della Sera del 21 marzo)

Fonte: Ispi

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